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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 7 novembre 2010

Verrà la morte e avrà i tuoi denti

Evgenij Zamjatin, Noi [1924], Milano, Lupetti, 2009, euro 14


Sono passati mille anni. E l’umanità è felice. 


Sembrano solo coincidenze: nel 1921 esce il fondamentale Storia dell’utopia di Lewis Mumford, in cui sulle società ideali già si addensa un fosco monolitismo; nel 1920 Josef Čapek scrive R.U.R., precursore della vita meccanica, con i suoi robot/androidi; nel 1918 Esenin canta la sua Inonia, utopia edenica contadina il cui collasso lo porterà alla disperazione e forse oltre; e solo un anno prima Vladimir Kirillov, nel suo poema Noi, intona “Noi, infinite, minacciose legioni del Lavoro. / Abbiamo vinto distese di mari, d’oceani, di terre, / della luce di soli artificiali abbiamo illuminato le città”. 


Negli stessi anni, tra il 1919 e il 1921, anche Zamjatin dà lo stesso titolo, Noi, al suo romanzo fantascientifico (marchiato dalla cultura ufficiale sovietica come “un miserabile libello sul futuro del socialismo” e pubblicato in patria solo nel 1988). Nello Stato Unico, il grammo dell’io si annulla nella tonnellata del Noi; felicità è dimenticare di essere un grammo e sentirsi la milionesima parte della tonnellata. Felicità e moralità meccaniche e matematiche: la vita è scandita dalla Tavola delle Ore, dalla funzionalizzazione al benessere dello Stato, dalla logica tayloristica e molecolare, dai riti collettivi. 


In un universo asettico e indefinito (macroisola? stato universale?), in cui la natura è asservita e annichilita, e tutto è solo vetro e acciaio, visibilità e controllo, un panopticon totale che si espande alle pareti trasparenti della case; una vita sessuale centralizzata burocraticamente e contrattualizzata tra pari, scientifica, stabilita nelle cadenze, medicalmente e igienicamente; la letteratura che ha saputo andare oltre anche il grande capolavoro delle epoche antiche, l’Orario delle Ferrovie, per essere finalmente utile, per contribuire alla felicità e alla compattezza dello stato, con la tragedia Colui che arrivò tardi al lavoro, con i Fiori delle condanne giudiziarie, e su tutto con le Odi quotidiane al benefattore, Colui che è il Numero dei Numeri, l’ipostasi dello Stato, acclamato nel Giorno dell’Unanimità (e in fondo J. Benda comincia il suo Tradimento dei chierici nel 1924). 


Certo gli archetipi della distopia si rintracciano fin dai Mondi celesti, terrestri, et infernali del  Doni (1562), dalla Favola delle api di Bernard de Mandeville (1714), o i Viaggi di Gulliver, l’Histoire des Galligènes di Tiphaigne de la Roche (1765), o il reame di Butua nell’Aline e Valcour di de Sade. Per non dire di Erewhon di Samuel Butler, per chi ha saputo leggerlo prima di altri. La distopia moderna, però, nasce solo con Noi, nel sovrapporsi di tecnicismo, totalitarismo, igienismo, depersonalizzazione. E il solco sarà segnato, fino a Mondo nuovo di Huxley, che pure negherà sempre di esserne stato a conoscenza, e fino a 1984 di Orwell, che invece recensì il romanzo di Zamjatin due anni prima di comporre il suo capolavoro, e ancora fino alla geniale tesi di laurea alla School of Cinematic Arts di George Lucas, nel 1967, poi riprodotto nel meraviglioso THX 1138


E lettere e numeri sono i nomi nello Stato Unico di Noi. D-503 (D per gli amici, che ovviamente abita nel blocco D, appartamento 503) appartiene all’élite dello stato; ingegnere, costruttore di quella nave spaziale Integrale che porterà la Felicità della Tavola delle Leggi sugli altri pianeti. E D-503 stende le sue note, intitolate Noi, orgogliosamente e convintamente felici, rivolte a quegli abitanti di pianeti lontani ma ormai prossimi, rimasti legati a modi di vivere irrazionali e arcaici, antenati a cui spiegare la bellezza morale della Felicità, tanto da trovarsi di fronte all’ardua sfida di scrivere non per lettori del futuro, ma del passato. 


Ma D-503, matematico, è tormentato fin dall’infanzia da √-1, fonte dei numeri immaginari e dell’inquietudine. E oltre il Muro Verde, asettico confine della perfezione dello stato, ignoti ai Numeri, vivono uomini rifugiatisi nel disordine del primitivismo naturale. E D-503 ha le mani odiosamente villose, un residuo di atavismo nella nuova asettica e glabra società. O forse frutto di relazioni criminali tra donne di qua dal Muro con uomini dell’oscuro di là. E proprio quelle mani pelose attraggono I-330, donna dai denti aguzzi e luminosi, al cui passaggio che fa tremar di claritate l’are D-503 precipita nel non-euclideo. 


E le note quotidiane di D-503 sono allora in realtà il diario dello sconvolgimento provocato da questa donna, dall’entusiasmo per lo stato e la propria missione, alla crisi, la passione, la scoperta rabbiosa e rapinosa delle pretese dell’io e del desiderio. Al riconoscimento della contrapposizione termodinamica tra energia, ribelle ed eretica e salvifica, ed entropia, che ossifica e sopisce. All’accettazione dell’infinito matematico. Fino all’adesione alla rivolta contro il Benefattore, di cui proprio I-330 è la guida. 


Ma se 1984 è una storia d’amore tradita dall’orrore dell’umano, a qualcosa si è ispirato. Perché la fantasia e la libertà sono solo un misero nodo centrale nella regione del Pons Varolii, snidabili in qualche voluta del cervello. E ciò che D-503 potrà annotare nell’ultima pagina del suo diario è come fosse bello che quella donna avesse i denti aguzzi e molto bianchi. Poi sarà entropia.

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