B. Vian, Sputerò sulle vostre tombe [1946], Milano, Marcos y Marcos, 1998, euro 13
Non è facile scrivere opere sgradevoli senza essere ridicoli. Non è facile scrivere libri da bancarella di stazione ferroviaria che non siano abbandonati sul sedile al termine del viaggio. Sputerò sulle vostre tombe, ad esempio. Vernon Sullivan, come ricostruisce il traduttore Boris Vian nella prefazione del traduttore, negro-bianco americano, bianco nell’apparenza e per la burocrazia, e negro nella memoria e nella rabbia, affida all’editore francese il suo manoscritto rifiutato dal sistema editoriale USA. Rifiutato per pornografia, se non per pedofilia, per violenza, per immoralità. Ma più perché il protagonista, ed io narrante, è un negro-bianco lui stesso, e la storia è un esorcismo, allo stesso modo in cui gli uomini del neolitico dipingevano bisonti colpiti dalle frecce per attirare la loro preda nella trappola; allora è ben più che un esorcismo, è un vaticinio, un giuramento di odio fino allo sterminio. Vendetta, rivalsa, rabbia, del negro sul bianco, insinuandosi nel mondo bianco, scopando ragazze bianche, ammazzando ragazze bianche dopo essersi rivelato per negro. Solo sei anni dopo, Frantz Fanon, psichiatra francese-martinicano, nel bellissimo Pelle nere. Maschere bianche indagherà l’alienazione del nero che cerca di essere bianco. La negazione di sé, il complesso di inferiorità. Il suo desiderio della donna bianca come compensazione. Ma tutto, in Sputerò sulle vostre tombe è ancora più ambiguo, nell’urlo di Lee Anderson, il negro-bianco, che vuole gridare chi è davvero; con quell’incipit fulminante Nessuno mi conosceva a Buckton, che non è fuga e nascondimento, ma come si scopre poco a poco, occultamento, preparazione necessaria alla vendetta di sangue e sesso. Per placare l’ombra di quel ragazzo due metri sottoterra, la cui identità affiora lentamente, per sottrarsi a quella paura e a quel tremore e a quella disperazione inoculate scientemente per secoli, come ricorderà Aimé Césaire, uno dei padri della négritude. Già, qui è tutto più complicato, perché Vernon Sullivan non esiste. E questo romanzo breve-racconto lungo esce dalla pena di quel mostro poliedrico di Boris Vian. Ne esce per soldi, ne esce per sfida, gioco, scommessa. Un romanzo scritto ricorrendo a tutto l’armamentario di un genere che dilagava in Europa con le cicche e le Marlboro. Un po’ come quel certo personaggio della nostra storia letteraria che un giorno abbandona tutto, e si mette a scrivere romanzi commerciali americani, tanto bene, da saper creare l’effetto di frettolose e impacciate traduzioni dall’inglese. E sì che un bell’indizio, c’era nella prefazione, quando Vian intravede nel romanzo l’influsso di James M. Cain, padre dell’hard boiled, e di James Hadley Chase. Che però era inglese, e le sue ambientazioni americane le otteneva con le guide geografiche e vocabolari e lessici di slang. E allora questo romanzaccio a effetto, operazione commerciale delle più bieche, non lo si abbandona sul treno. Perché, nel gioco di proiezioni e assunzioni di identità, caso limite della sequenza autore - autore fittizio - autore implicito - narratore, è una denuncia dura e feroce di ogni razzismo e ogni società, con lo scarto inatteso e finale tra narratore in prima e in terza persona, dalla pianificazione lucida tracimata in un’ordalia spasmodica di sangue, alle asettiche e descrittive pagine conclusive, fino al brevissimo capitolo epigrafico dove si raccolgono indignazione e irridente fedeltà alla propria rabbia. Perché non tutti, quando il giorno s’impaluda in una moria schiumosa, restano sempre in attesa del passaggio delle undici ragazzine cieche dell’orfanatrofio di Giulio l’Apostolico.
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