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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

lunedì 19 novembre 2012

Se una mattina d’inverno un lettore


Non è ancora troppo tardi.

Non so se sia vero che un bambino per prima cosa guardi le figure dei suoi libri; nel mio caso, direi che così non sia stato. Certo, però, l’immaginario visivo del lettore – indotto o autogeno – è fondamentale; e le sue trasformazioni costituiscono una sorta di storia della società sub specie iconica. Figuriamoci, se parliamo di letteratura per l’infanzia.

E letteratura per l’infanzia, lo era e lo è ancor più da quando Harry Potter è sfuggito incredibilmente a una grandemagrande casa editrice milanese, è Salani.

E per i 150 anni della casa editrice di Firenze, al Castello sforzesco di Milano, è allestita fino al 6 gennaio 2013 la mostra “Da Pinocchio a Harry Potter”. E lo dico subito, è una delle migliori esposizioni bibliografiche in cui mai mi sia capitato di imbattermi. E lo è non solo per la selezione e l’interesse in sé delle tavole originali e delle copertine, davvero bellissime, e basti la copertina de Il ragazzo che scrisse l’enciclopedia di se stesso


Lo è anche per l’intelligenza combinatoria e il nitore critico del percorso.

Il curatore, Giorgio Bacci – assegnista di ricerca alla Normale, e che ha al suo attivo Le illustrazioni in Italia tra Otto e Novecento per Olschki, ma soprattutto è curatore del progetto di digitalizzazione informatica Archivio Salani (http://www.artivisive.sns.it/archivio_salani.html) – ha creato, e mi permetto di dirlo sinceramente, un piccolo capolavoro che guida il visitatore a cogliere il nesso tra scelte di mercato e linee culturali; a riconoscere la lenta ibridazione con i diversi mezzi di comunicazione a impatto visivo dominante (dai rotocalchi, ai cartoni animati, al cinema); a ricostruire (con le linee guida interne, gli originali delle tavole, gli appunti interni dei redattori, le fasi di lavoro) il lento processo redazionale nell’elaborazione delle copertine; a individuare il mutare, davvero affascinante, della grafica in edizioni, a distanza anche di decenni, dello stesso titolo.

E specifico che di Giorgio Bacci non sono amico; avevo giusto letto tempo fa un suo saggio sui frontespizi nelle cinquecentine di Vitruvio; e nemmeno l’avevo mai visto. Da ieri posso dire che anche come Cicerone, per precisione, respiro, e rispetto dei tempi di vagabonda curiosità del visitatore, soffia in faccia a molte guide professioniste.

Se passate da Milano, non è ancora troppo tardi.



lunedì 10 settembre 2012

Vado a Mantova e torno - 2012


Vanni Scheiwiller diceva che avrebbe voluto stampare un catalogo di tutti libri che non aveva potuto pubblicare.

Io vorrei fare l’elenco di tutti gli eventi del Festivaletteratura 2012 a cui non sono potuto entrare.
D’altronde quando ci si ricorda la sera prima che gli eventi bisogna prenotarli, non è che poi ci si possa lamentare.
E se si ha in mente di fare almeno delle foto, e al primo scatto si scopre di avere lasciato la memory card nel portatile, non è che le rubriche ne guadagnino...

Insomma, il post con cui avevo deciso di riprendere a curare loubiquo, non è proprio fortunato.
D’altronde, il lavoro mio, e ancor più della Rossa, mi costringe a una toccata e fuga il sabato; per il resto posso solo rimandare al resoconto degli amici della  Balenabianca, che hanno seguito come blogger l’intero Festival.

In concreto sono riuscito a prendere parte a tre cose.

Graphic History, con Vittorio Giardino e Gabriele Ranzato; Lettere, voci e immagini d’Orlando; Raffaele La Capria


Graphic History, con Vittorio Giardino e Gabriele Ranzato

Vittorio Giardino è un famoso disegnatore, celebre soprattutto per il personaggio di Max Fridman, un agente segreto attivo nell’Europa alle soglie della Seconda guerra mondiale (e per qualche virate erotica). Dopo gli originali Rapsodia ungherese e La porta d’Oriente, Giardino ha pubblicato, sempre con Max Fridman, la trilogia di No pasarán (2000, 2001, 2007), riedita in unico volume nel 2011. La pubblicazione completa giustifica la presenza a Mantova; l’ambientazione, la guerra civile spagnola, giustifica la co-presenza di Ranzato, docente di Storia contemporanea a Pisa, esperto del conflitto del 1936-39 fino al recente La grande paura del 1936 e interlocutore e riferimento di Giardino sul tema.

Non avevo mai visto i due, e dunque quando si siedono alla cattedra l’assegnazione nome-viso è fatta. Giardino è quello sulla destra, artistoide e scapigliato e un po’ sornionamente scamiciato; Ranzato a sinistra, barbetta curata, compitino, dietro al portatile dal quale ci costringerà a meditare su qualche documento numero tot barra tot del Partido Obrero de Unificación Marxista. Ovviamente è l’inverso.

I due, che in realtà non si sono mai visti, si lisciano ed elogiano. Purtroppo un po’ scoordinatamente. Entrambi ammettono di essere un po’ logorroici; nessuno dei due ammette di essere un po’ vanesio. Ma la palma senz’altro la vince Ranzato. Tutti e due puntano a far filtrare di sapere sull’argomento più dell’altro. Giardino rifugiandosi sulla piccola storia materiale che sostenta i suoi racconti (“Ma la funicular de Montjuïc, funzionava durante la guerra? Posso inserirla nel racconto? Questo gli storici non lo sapevano”). Ranzato dice le cose migliori sull’invidia dello storico nei confronti del romanziere che raggiunge con altri strumenti un pubblico più vasto e influenzandolo con più efficacia (“Io non potrò competere mai con Per chi suona la campana”). E le cose peggiori quando in coda comincia a polemizzare sulla verosimiglianza dell’orientamento politico di Max Friedman. Giardino ha il suo apice di interesse quando mostra come le sue tavole siano tramate di precisissimi e puntuali riferimenti iconografici e di ricerche storiche, davvero impressionanti per un non esperto. Le peggiori quando rischia di ridursi a una collazione tra poster propagandistici e le sue tavole e quando squaderna qualche ovvietà sul romanzo storico, misto di storia e d’invenzione, che erano banalità il giorno dopo che ’l Lisander le aveva dette.


Lettere, voci e immagini d’Orlando

A fianco del Furioso in festa, tra gli eventi che hanno maggiormente attirato l’attenzione dei media, compariva la sezione multimediale dedicata al Furioso. Interessante, non c’è che dire. Se non che, la connessione non è che funzionasse magicamente. E la riproduzione delle lettere autografe era di un falso che era quasi divertente; ma ancora peggio, perché a fianco hanno collocato un riassunto, e non una trascrizione? A quel punto, valeva la pena di evitarsi anche la spesa della pseudo cartapecora.

Raffaele La Capria

Nel 2011 sono stati cinquant’anni dalla pubblicazione di Ferito a morte, festeggiati dalla Mondadori con un volumetto celebrativo arricchito da un’appendice “Sei modi di leggere Ferito a morte”, con pagine critiche da Pampaloni a Magris, e da un’introduzione dell’autore, che con tono umbratile rileva come il suo romanzo “per come è costruito, per la complessità della tessitura narrativa, per la polifonia delle voci e la varietà dei punti di vista, per quella sincronia che va avanti e indietro nel tempo mentre tutto è sempre presente” costituisca un libro di eccezione.

Dall’incontro riporto alcune cose:
1.      Che i suoi novant’anni, La Capria li porta proprio bene.
2.      Un interessante esordio in cui La Capria, recuperando una similitudine giù usata , paragona l’arte del romanzo ai tuffi: la naturalezza del volo come esito di una fatica e un impegno levigati dalla sprezzatura (o, per usare un’altra metafora, lo stile dell’anatra, che sembra filare via leggera sull’acqua mentre sotto le zampe vorticano faticosamente, stante il titolo Lo stile dell’anatra del 2001); l’incipit di un romanzo come uno stacco ardito e misurato dalla tavola (come per la Metamorfosi di Kafka); il finale come l’ingresso nitido e secco e definitivo nell’acqua (come il dell’Ulysses).
3.      La protesta – diciamolo – querula e totalmente estemporanea per il fatto di essere ricordato solo per Ferito a morte e non per gli altri suoi venti romanzi e oltre.
4.      La protesta per la categorizzazione come scrittore napoletano; è un po’ difficile, però, non sentire attaccare i mandolini quando parla della sua giovinezza napoletana, e non è questione di accento
5.      Un’impressione nostalgico-arcadico-apocalittica per quando la terra era vergine e creaturale, cioè quando era bambino lui.
6.      Una concezione paleo-umanistica della scrittura, con la priorità di una presunta qualità umana sulla qualità artistica.
7.      L’elogio e la rivendicazione di un disinteresse per qualsiasi cosa possa essere impegno, con in esergo l’esempio di Piovene che, sollecitato da Pasolini a firmare un documento di sostegno a degli esuli politici della spagna franchista (tanto per dire, la famosa indagine di Garzón riguardava l’assassinio di 114.000 persone fino al 1952), se la cavò con “io di queste cose, non me ne intendo”.
8.      Che se l’incontro finisce in fretta c’è tempo per passare a comprare una sbrisolona...

lunedì 30 aprile 2012

Per i momenti bui... un'immagine meravigliosa


Temo che ancora per tutto maggio latiterò; il lavoro è tale che non riesco a leggere nulla se non ciò che è strettamente legato a quello che è ormai il mio incubo da un paio di mesi.

Allora, perché non abbia a lamentarmi e a gemere troppo, mi umilierò da me stesso con questa foto.


La didascalia recita L’istruzione non è questione di mezzi, ma piuttosto di volontà.

giovedì 5 aprile 2012

Oggi si parla di desiderio, storia e inadeguatezza maschile


cadevano le granate
le bombe cadevano

una è entrata fin dentro la stanza
e lui non mi ha neppure abbracciato

la guerra è un gran male, che cammina
in casa arriva, nell’anima ti entra

e ti prende la casa e l’anima

e io avevo solo bisogno
che mi abbracciasse

nascondevo le lacrime
nascondevo l’odio

nascondevo ai bambini il bisogno
che sentivo del suo amore

se mi avesse abbracciato una sola volta
la guerra per me sarebbe passata

mi sarebbe passato
l’orrore che cammina, che prende la terra

si prende la città, si porta via la casa
lacera l’anima

trecento giorni di guerra
e lui non mi ha nemmeno guardata

trecento giorni e trecento notti
la guerra non ha anima né occhi

è troppo tempo che siamo insieme
e so che l’amore si consuma

come i soldi, come i ricordi

ma tutt’attorno
cadevano le granate

e io sentivo solo il bisogno
che mi abbracciasse

(A. Sidran, Poesia al femminile, da La bara di Sarajevo)


Il 5 aprile 1992 cominciava l’assedio di Sarajevo, il più lungo assedio della storia moderna.

Ave Maria gratia plena... “Ave Maria regina dei croati”. Ave Maria per la gente rinchiusa tra il filo spinato. Ave Maria per l’orologio che si è fermato sul campanile della cattedrale. Ave Maria per il grano e per le quaglie in mezzo al grano. Per gli occhi pieni di spavento, per le orecchie e per le gambe. Ave Maria per gli angeli che cantano nel cielo. Ave Maria per coloro che combattono per la nostra terra, e intanto pensano a quella degli altri. Ave Maria per l’insetto che non può posarsi sul filo spinato. Ave Maria per i serpenti che hanno avuto la saggezza di sparire sotto terra. Per l’albero, la pietra e l’acqua.
Ave Maria per la foglia morta nella Via Re Tomislav a Sarajevo, per tutta la città, che si ricorda ancora dei nostri volti.
Ave Maria per i gobbi, gli storpi e gli affamati.
Per il cane che non ha l’osso. Ave Maria per i soldati, soldati, soldati...
Ave Maria per la mia tristezza serale, che non conosce riposo.
Ave Maria per il mattino, il giorno, il tramonto e la sera. Per la neve e la pioggia.
Ave Maria per giugno, luglio e agosto. Per le ombre sull’acqua. Per la bora e le vele. Ave Maria per quelli che se ne sono andati, per quelli che devono ancora partire e per quelli che restano.
Ave Maria per i morti e i non nati, perché di essi è il regno dei cieli.
Ave Maria per le ventisette città martiri.
Ave Maria per le ragazze abbandonate.
Ave Maria per Mary-Jane, donna meravigliosa, con tutto il mio amore, che non è bastato. Ave Maria, e che tu sia piena di grazia per Alessandra nascosta nella Via dei Principi caduti.
Ave Maria per la nostra Jugoslavia, per la Germania, l’Inghilterra, la Francia...

E prega per noi, per tutti noi,
che siamo in cammino...

Campo di concentramento di Slavonski Brod, luglio 92 (da V. Čolić, I Bosniaci, Milano, Zanzibar, 1996)

Nella carneficina quotidiana, si scavano le trincee di desiderio in cui resistere.
Buon compleanno. 

venerdì 30 marzo 2012

Tempo di attesa stimato, ricalcolo



In attesa di aggiornamenti del blog, leggete. Che mi sa che è la volta buona che riuscite a finire La morte di Virgilio...

giovedì 22 marzo 2012

Per il 25 marzo a Milano

 Sul Tram Verde, per tutte le famiglie una staffetta di letture ed incontri d’autore in collaborazione con Hooks. 


Il programma prevede:- dalle 11 alle 12 Newton Compton con "101 cose da fare a Milano con il tuo bambino" e la lettura delle autrici Giovanna Canzi e Daniela Pagani;- dalle 12 alle 13 Marcos y Marcos con "Bar Atlantic" e la lettura dell'autore Bruno Osimo;- dalle 15 alle 16 Iperborea con "Saluti e Baci da Mixin Part" e la lettura di Claudia Negrin e Michele Bottini;- dalle 16 alle 17 Tropea con "Un dollaro al giorno" e la lettura dell'autore Giovanni Porzio;- dalle 17 alle 18 Autodafè con "L'isola dei voli arcobaleno" e la lettura della autrice Sabrina Minetti.

Le vetture circoleranno dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00. I mini tour della durata di 30 minuti partiranno da Piazza Castello (angolo via Beltrami) alle 11.00, 12.00, 15.00, 16.00 e 17.00 e da Piazza Fontana alle 11.30, 12.30, 15.30, 16.30 e 17.30.


Per prenotare il tour rivolgersi al personale presente in fermata. L'accesso è gratuito, fino a esaurimento posti.  

mercoledì 21 marzo 2012

S’è arenè stanòta una baléna

È primavera. L’entroterra marchigiano-romagnolo è una delle ultime terre mitiche d’Italia, dove restano le favole antiche; è nuova stagione, e il mondo torna alla sua infanzia. Più ingenua e primitiva là, tra quei greppi d’entroterra dove a primavera arriva a tratti il Garbino portando la fregola e la pazzia e l’odore di un mare che gli anziani conoscono ma non hanno mai visto, là da dove arrivano i miei antichi. Là dove e’tèra e’ tera ch’u n i sta niséun / e u s vàid dal gran pidèdi d’animèli.

Ogni tanto mi faccio portare in mezzo a queste rocce dello Storena, piccolo torrente del Montefeltro. Resto lì e so di essere chissà dove. Abbiamo bisogno che non siano soltanto le parole a toglierci dalla monotonia di questa vita ma anche un paesaggio può ributtarti addosso una vita primitiva abbandonata da milioni di anni e farti sentire l’odore dell’infanzia del mondo. Ore le cose non durano più. Tutto viene sepolto da altri episodi e fatti che arrivano continuamente con una lunga e infinita pioggia di neve che cancella i rumori che stavano appena scricchiolando nel mondo.

Così Tonino Guerra nell’ultimo dei suoi libri, Polvere di sole, uscito in questo marzo frettoloso. Alle 08:30 della mattina del 21 marzo 2012, in piazza Garganelli, a Santarcangelo, nella casa di Tonino Guerra è entrato il silenzio.

Andè a di acsè mi bu ch’i vaga véa,
che quèl chi à fat i à fat,
che adèss u s’èera préima se tratòur.

E’ pianz e’ còr ma tótt, enca mu mè,
avdàa ch’i à lavurè dal mièri d’an
e adès i à d’andè véa a tèsta basa
dri ma la córda lònga de mazèl.

Andate a dire ai miei buoi che vadano via
che il loro lavoro non ci serve più
che oggi si fa prima ad arare col trattore.

E poi commoviamoci pure a pensare
alla fatica che hanno fatto per migliaia di anni
mentre eccoli lì che se ne vanno a testa bassa
dietro la corda lunga del macello.

martedì 20 marzo 2012

Scusate il ritardo, ma non la sociologia

Negli ultimi tempi ho decisamente latitato. Proviamo a divagare.

Mi imbatto in Family Connections in Accessing Licensed Occupations in Italy, di Gaetano Basso e Giovanna Labartino, all’interno di Family Ties in Licensed Professions in Italy, un report della Fondazione Rodolfo Benedetti (http://www.frdb.org/upload/file/family_professions_fRDB_050711.pdf).

Ora, che l’Italia sia una società statica, e asfittica, in cui i lavori si ereditano, è storia tristemente vecchia.

Però a pag. 40 c’è qualcosa di interessante; la classica tabella a due entrate, con sia sull’ascisse sia sull’ordinata le varie tipologie di professioni: operai; impiegati; insegnanti; Dirigenti di medio livello; Dirigenti; Professionisti; Imprenditori. Già la scelta della sequenza potrebbe essere significativa, con gli insegnanti collocati sotto i dirigenti di medio livello. D’accordo: da qualche parte dovevano piazzarli.

L’aspetto interessante della tabella è che l’ascisse indica il mestiere dei padri, e l’ordinata il mestiere dei figli. È così possibile registrare per ogni professione qual è l’approdo lavorativo dei figli.

Nulla di particolarmente sconvolgente. C’è poco da sorprendersi che il 57,47% dei figli di operai faccia a sua volta l’operaio; e – chi l’avrebbe detto – i “professional” (medici, architetti, avvocati, giornalisti etc.) tendono a tramandarsi il lavoro tra generazioni (il 28.26%, ossia il segmento maggiore, dei loro figli è, a sua volta, “professional”).

C’è però un dato che mi ha incuriosito molto. È possibile infatti riconoscere qual è la professione che, come dire, tende meno a riprodursi di padre in figlio. Dunque, dicevamo che il 57.47% dei figli di operai fa l’operaio; il 43,69 dei figli di impiegato, l’impiegato; è così per il 32,12 degli imprenditori, il 28,26 dei “professional”; il 14,30 dei manager; il 13,73 dei dirigenti medi. E in fondo, proprio in fondo, il lavoro che nessun figlio vorrebbe fare. E sì, perché solo il 13,51% dei professori ha un figlio professore. Gli altri scappano tutti.

Ripensando al silenzio in cui è sprofondato questo blog, non mi sorprendo.

mercoledì 7 marzo 2012

Verrà la morte, ma anche no

Osman Lins, L’isola nello spazio [1964], Palermo, Sellerio, 2000

Nel mio archivio di letture future c’era da un pezzo Avalovara di Osman Lins; così quando mi imbatto nel suo agilissimo L’isola nello spazio penso che possa essere un’utilissima degustazione preliminare. Dunque vediamo: trentaquattro pagine di testo autoriale; tredici di postfazione. Un commento lungo più di un terzo dell’opera: chissà che testo denso, complesso, stratificato, ambiguo, polisemico.

Buona parte della postfazione si riduce a parafrasi del testo; un’altra discreta parte replica e ribadisce e puntualizza che questo racconto è palesemente ancora un’opera preliminare, interlocutoria, incerta, e non siamo ancora di fronte a quella figura che contribuirà a rivoluzionare la letteratura brasiliana. Così, nel caso non mi fossi accorto di non avere letto chissaché. Oltre a questa sequenza di postille e premesse e mani-avanti, quel che resta serve a dire una cosa abbastanza evidente, sia pure con una consistente messe di riferimenti.

E la cosa evidente è che siamo di fronte a un ribaltamento della struttura del giallo; se nel genere dovremmo passare da un mistero alla sua spiegazione passando attraverso un’indagine metodica e razionale, qui passiamo dalla premessa da risolvere (il classico delitto della camera chiusa, o meglio in questo caso sparizione dalla camera chiusa) alla spiegazione pienamente materiale e meccanica (doppia spiegazione materiale e meccanica di quelli che sono in realtà due misteri) passando però per uno sprofondamento nel fantastico.

E qui nella postfazione volano parole pesanti, come Buzzati, per il fantastico, e Pirandello, per ragioni che chiunque avrà voglia di leggere il racconto – ma probabilmente anche solo il resto della scheda – capirà da sé.

Perché il racconto si apre con la scomparsa di Cláudio Arantes Marinho, ultimo inquilino rimasto nel gigantesco e nuovo Edificio Capibaribe, affacciato sul fiume di Recife, in cui, misteriosamente, cominciano a morire vari inquilini, con la conseguenza della repentina fuga di tutti gli altri. Cláudio Arantes Marinho, come si ricostruisce dall’analessi, abbandonato da moglie e figlie, resta nell’edificio spettrale sulla base di un accordo coi costruttori: le restanti rate abbuonate in cambio di una presenza che possa confutare tutte le leggende e i timori.

Eppure, il nostro eroe un giorno scompare. Certo, condivisibilissimo quanto ribadito dalla postfazione: siamo di fronte a un uomo prigioniero di una vita infelice, e il casermone abbandonato di cui resta a guardia è metafora che non richiede avanguardie semiotiche; e nemmeno l’insistenza sulla morte che si aggira in attesa e fiutante per i corridoi vuoti in cerca dell’ultimo inquilino impone virtuosismi interpretativi. Anzi, qualche passo efficace si trova. Però.

Però quel fantastico? Il fantastico è fantastico, cioè perturbante; non ci vuole Todorov per sapere che il fantastico resta ambiguo. Però, per la miseria, ambiguo e non spiegabile non vuol dire ne-faccio-quel-che-voglio-che-tanto-siccome-è-fantastico-non-ciò-[per il proto: non “c’ho”, ma proprio “ciò”]-niente-da-giustificare. Devi scegliere: l’ascensore vuoto che si muove al piano da solo oppure gli interessi speculativi; il pappagallo che si aggiunge alla lista delle morti misteriose o la vecchia ricetta di un veleno su un antico manoscritto italiano (bel colpo di fantasia, tra l’altro).

E poi, il finale. A parte il fatto che buonanotte verosimiglianza (e proprio quando saremmo tornati sul piano del reale), a parte quello, o spieghi tutto razionalmente, oppure non fai saltare fuori all’ultimo da chissà dove un marchingegno che nemmeno Sweeney Todd. E non te la cavi con un grossolano finale di dieci righe.

Una cosa avrei voluto sapere dalla postfazione. Ma che c’entra quel povero gatto? Ora, non che i gatti mi facciano una gran pena, specifico. Ma se un gatto letterario fa una brutta fine, allora è tutta altra faccenda. Ecco la mia sfida: se qualcuno mi spiega il destino del fictional cat, avrà diritto a una scheda su un libro di non più di cento pagine, leggere sempre bene i caratteri in piccolo di sua scelta. 

domenica 4 marzo 2012

Antropo-geologia del Canton Ticino

Max Frisch, L’uomo nell’Olocene , Torino, Einaudi, [1979], Torino, Einaudi, 2012 (1981)


Un romanzo della vecchiaia. Un romanzo di forte dimensione autobiografica.

Max Frisch, romanziere scomodo, impegnato, polemico, tra il 1965 e il 1980 andò ad abitare, lui svizzero-tedesco, nella Valle Onsernone, una valle del Canton Ticino in via di spopolamento. Anche il signor Geiser, più o meno coetaneo di Frisch al momento della composizione, vive in Val Onsernone. Vedovo. Solitario.

Sulla Valle Onsernone si scatena il finimondo, le cateratte del giudizio universale. La valle è isolata, la corrente interrotta, le comunicazioni saltate, i viveri scarseggiano. Esiste ancora un mondo di là dalle creste nebbiose? Comincia così una sorta di cronaca dell’apocalisse umana.

Una cronaca di brevi, brevissimi frammenti, in cui il narratore esterno segue alternativamente le condizioni del tempo e passo passo le piccole attività di sopravvivenza di un uomo anziano isolato in una valle isolata, creando progressivamente una vera immersione dell’uomo nella natura, in una scansione cronologica precipitosamente irrazionale verso la fine. Ma il narratore è anche narratore onnisciente (quasi sempre), e segue i pensieri dell’uomo; o meglio, ne segue la fragile ricerca di pensieri, e ricordi, e nozioni.

L’anziano signor Geiser, infatti, è preda di una evidente senescenza, di una memoria sempre più fragile. Nella lotta contro l’oblio il signor Geiser ritaglia dai suoi libri stralci di pagine per affiggerli alle pareti; e il romanzo si fa allora non solo una cronaca dell’apocalisse, ma anche un ritorno, una rilettura della genesi. Perché quei ritagli – riprodotti in anastatica direttamente sulla pagina, tanto da fare del libro un collage sperimentale – provengono da manuali di geologia, dalla bibbia, enciclopedie: appunti sui dinosauri, la memoria, le falde penniniche, la deriva dei continenti, l’uomo come essere storico, la meteorologia. Una sorta di discesa verso un tempo ancestrale, pre-umano, alle grandi forze che plasmarono la terra.

Il mondo collassa, la casa del signor Geiser crolla, la sua memoria vacilla; solo due grandi eventi restano saldi nella sua memoria, i due grandi eventi della sua vita. Un viaggio in Islanda, trasfigurata – in una pagina di grande apertura e potenza epica – in una terra prima dell’uomo, e che identica sarà ancora dopo l’uomo, e già senza uomo; un’antica scalata giovanile con il fratello, quando la morte fu vicina, e l’uomo fu niente di fronte alla montagna.

Il signor Geiser procede verso un tempo prima di lui e dopo di lui, fino a confondersi con la roccia senza tempo e senza memoria.

Nel finale il narratore raggiunge un’ambiguità insieme suggestiva e dolorosa, come una voce straniata e distante. Gli ultimi ritagli di chi sono? Chi ha cercato e letto le parole erosione, cancro del castagno, escatologia, principio di coerenza che raccolgono in un senso ultimo e unitario l’esistente della terra, del Ticino, di un uomo? Chi quell’ultimo ritaglio di argomento medico che spiega il finale? Di chi quella voce che cala il sipario, riassumendo, finalmente, finalmente in forma distesa, le varie fugaci osservazioni sulla Val Onsernone disperse lungo il romanzo da una voce frammentata? I libro si chiude come in un volo di uccello, in una voce sempre più distante, in cui il signor Geiser, laggiù, è scomparso.

Uno dei frammenti, significativamente tra parentesi, ambiguamente e unico tra parentesi, rilevava l’inconsistenza dei romanzi contemporanei: storie di relazioni famigliari, di anime infelici, come se il terreno per tutto ciò fosse garantito, la terra per sempre una volta terra, l’altezza del livello del mare regolata una volta per sempre. In questo romanzo la terra e il mare si muovono nel lento movimento eterno della materia plasmata dal tempo; l’uomo dell’Olocene – un uomo nell’Olocene – può solo confondersi a tempo e materia, ricordando l’ultima cosa importante, EB : AE = AE : AB, uno dei primi ritagli affissi, la sezione aurea che regola la natura e la bellezza.

martedì 28 febbraio 2012

Sura dell’uomo che cade

Meša Selimović, Il derviscio e la morte [1966], Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008 (1983)

In uno dei territori più selvaggi della Bosnia, a Blagaj, improvvise si aprono nella roccia le sorgenti della Buna, fiume carsico che alla fonte vanta un flusso di 40.000 metri cubi d’acqua per minuto, più del Danubio, e che presto si getterà nella Neretva, la lenta madre azzurra dell’Erzegovina.





Lì, alle foci della Buna, ai piedi di una parete verticale di duecento metri, dal sedicesimo secolo, si specchia nella acque una tekija, un “monastero” sufi.


In un villaggio innominato della Bosnia, e che pure potrebbe essere anche questo, incentrato in una tekija indefinita, e che pure con un po’ di fantasia potrebbe anche essere questa, è ambientato un meraviglioso romanzo; un romanzo “orientale”, e che di questa terra sospesa al crocevia della geografia e dei tempi ha tutta la lentezza e la sacralità. Un romanzo ascetico come può esserlo il memoriale di un derviscio condannato a penetrare nella parte più oscura di sé.

Nel nome di Dio, clemente misericordioso! Chiamo a testimone calamaio e penna e quello che con la penna si scrive; Chiamo a testimone l’ombra incerta del crepuscolo e la notte e tutto quello che essa ravviva; Chiamo a testimone la luna piena e l’alba che imbianca; Chiamo a testimone il giorno del giudizio e l’anima che si accusa da se stessa; Chiamo a testimone il tempo, inizio e fine di tutto – che l’uomo è sempre in perdita. 

Il romanzo si apre con un incipit altissimo, e tragico. Ogni capitolo è aperto da una citazione del Corano - fino all’ultimo In quel giorno Noi diremo alla gehenna: «Sei piena?» ed essa chiederà: «C’è dell’altro?» - a scandire il travaglio di un uomo cresciuto nella certezza della fede, nelle regolarità rassicurante della liturgia, nella costanza dell’eternità: Ho sempre saputo che cosa dovevo fare, l’ordine dei dervisci pensava per me e le fondamenta della fede sono solide e larghe, e non c’era nulla in me che non si potesse porre su di esse.

Ahmed Nurudin, sceicco della tekija durante la dominazione ottomana, è un uomo probo e di fede, un punto di riferimento per la comunità. Un giorno il fratello viene arrestato. L’accusa resta misteriosa; la colpa inespressa; la sentenza a lungo sconosciuta. Per Ahmed è l’inizio del percorso, in un labirinto insensato e cieco nei palazzi e nelle trame del potere, perso tra la violenza, l’arbitrio, la cupidigia, l’ottusità, fino alla rivelazione della propria nullità. Ma per Ahmed, Giobbe disperato, è anche l’inizio di un percorso dentro di sé alla ricerca della più vera propria natura, tra lunghi monologhi scarnificanti e folgorazioni impietose: la menzogna, la paura, la rabbia, la fragilità, la vigliaccheria, la meschinità, la solitudine. Tutto a poco a poco in lui si erode; e ciò che resta sono odio, per sé e per tutti, e vendetta. E il tradimento ultimo di sé e anche dell’ultima cosa che era riuscito a preservare.

Nella lunga ultima notte, dopo l’ultimo ricordo di un tempo remoto, di una vita attesa e desiderata diversa, Ahmed inoltra lo sguardo nell’abisso. Uomo che canti in questa oscurità spaventosa, io ti ascolto. Mentre le ultime ore incalzano agghiaccianti e tremende, mentre l’onda del terrore si approssima, la mano verga la conclusione del memoriale ponendo il sigillo della disperazione umana e di una vita confusa e senza senso.

Non amo molto i libri in forma di diario, o memoriale che sia. Troppo usurata la formula, e troppe volte irrealistica la costruzione e l’interruzione (presente il narratore interno che sbatte via tempo a vergare le ultime parole mentre torme di lemuri carnivori del pianeta XyW4Zr premono al portellone antigravitazionale?).

In questo libro però, la cui lettura dovrebbe essere studiata per essere conclusa nel silenzio abissale della notte, tutto appare naturale. La prosa ha la dolcezza lirica del rimpianto e del ricordo, del ripiegamento su sé, anche se tutto ciò che vi può trovare l’uomo è l’abisso di un’infelicità esacerbata dalla piccola tragica meschinità che gorgoglia nel fondo; e la prosa ha insieme la potenza apocalittica della prosa profetica e visiva del Corano, i suoi ritmi misteriosi e violenti. Durante la guerra partigiana, il fratello di Meša Selimović, partigiano, fu arrestato dai suoi stessi compagni con l’accusa di furto; Meša Selimović, figura importante del partito a Tuzla, non poté nulla per aiutarlo. In questo bellissimo e cupo romanzo si deposita la forza catartica della letteratura, la purificazione del dolore e della paura.

Alla fossa ho detto: “Tu sei mio padre!”,
al verme ho detto: “Tu sei mia madre e sorella”-
Dove sei, ora, mia speranza?
Chi ti vedrà più?
Scenderai con me nel mondo dei morti,
assieme finiremo nella polvere.

mercoledì 22 febbraio 2012

Raccontare la morte nel freddo nel tutto nel nulla

Jack London, Le mille e una notte, Milano, Adelphi, 2006

Come fa chi è cresciuto sperando che un giorno avrebbe anche lui sentito il richiamo della foresta a resistere alla tentazione di comprare una raccolta intitolata Le mille e una morte


Sette racconti pubblicati in sedi diverse, tra il 1899 e, postumo, il 1918. Racconti che affrontano tutti la morte attraversando l’intera vita artistica di London, dalla prima giovinezza e le sue esperienze per mare, al crudele biancore del Klondike, agli ultimi intentati confini della Polinesia. E la prima inevitabile impressione, è quella di una crescita, di una naturalezza e di una complessità che si impone agli occhi. 


È quasi traumatico il passaggio dal primo racconto (Le mille e una morte) al secondo (Bâtard). Il primo, tra le Ventimila leghe sotto i mari in sedicesimo e un dottor Mabuse di scarto, pretenderà pure di essere una psicomachia con la figura del padre, ma in concreto è un raccontino che non sta in piedi, senza struttura, senza verosimiglianza, senza montaggio e linee, mera accozzaglia di chimica e biologia, orecchiate e futuribili. 


Poi, improvvisi, i capolavori. E il primo è Bâtard, racconto tanto celebre che già lo avevo letto da bambino in una vecchia raccolta Mursia: la lotta di odio tra cane e uomo per il dominio, in cui umanità e caninità si confondono, l’uomo che si fa bestia, il cane che ha sentimenti umani di malvagità, un rossomalpelo subdolo nelle scelleratezze, figlio di cagna ringhiosa, rissosa, sconcia, un tragico apologo sulla violenza e la ferocia, e sul destino, natura o educazione che sia. 


E poi Accendere un fuoco, un racconto da rileggere e rileggere ancora per l’impressionante capacità di lentezza narrativa: un uomo che cerca di accendere quel fuoco che potrà salvarlo dalla morte per assideramento; un racconto dell’orrore che affonda nel biancore sterminato, in cui ogni istante si scompone attimo dopo attimo nell’inesorabilità della debolezza umana di fronte alla forza del potere annientante dell’immensità del Nord, un dialogo di un islandese senza quella fantasia che serve anche solo a percepire la propria nullità, e della natura indifferente che prende la forma finale in un cane che ulula sotto le stelle che guizzavano e danzavano e brillavano radiose nel gelido cielo per poi riprendere il suo cammino verso il fuoco.


E ancora nel Nord è ambientato Perdifaccia, e chissà che giri ha fatto lo schema narrativo che ne costituisce la fabula, che non credo che London avesse letto di Isabella e Rodomonte. Ma appunto l’inganno di Subienkow non è altro che l’architrave, l’esile elemento su cui è costruito il racconto. Ma la bellezza del racconto è in quell’analessi quando Subienkow vede avvicinarsi la tortura: quella lunga traversata della Siberia, in fuga dalla Polonia, fino alla morte che lo attende sul fiume Yukon, sempre nel vano tentativo di tornare a quelle capitali dell’Europa occidentale a cui sembrava destinato. Anche qui il nucleo è il destino imprevedibile dell’uomo, schiacciato e deciso nello scontro tra civiltà e violenza naturale, in una lotta che questa volta però, sotto il finale quasi comico da racconto orale popolare, ha la forma ambigua e malinconia di una canzone francese che fa parte di un rituale magico su una pozione in cui si mescolano bacche e muschio e dita mozzate ai moribondi, e che è invece l’ultimo ricordo di un viso di donna sulla Senna e di un addio.


C’è un ultimo racconto che merita, davvero, una lettura, per la sua anomalia, per la sua non facile riconducibilità al London più conosciuto. Il Dio Rosso è una sorta di cuore di tenebra polinesiano; comincia con la potenza biblica delle trombe dell’Apocalisse, in un incipit tanto potente quanto ambiguo, in cui la profezia si confonde con la pazzia. Almeno nell’ancor fragile consapevolezza del lettore. La storia di una ricerca disperata dell’origine di un suono, attraverso la morte, la giungla la malattia, le paludi, la paura e la ferocia, nell’approssimarsi progressivo al richiamo della voce del Dio Rosso, il Dio della violenza e della tortura. Ma il Dio Rosso non è solo un signore delle mosche. E il finale allora ha la forza straziante e insieme rasserenante dell’ultimo passo verso l’ignoto, nell’ultima visione, quando anche quell’ultimo passo sarà illuminato. E tutto ancora resterà per sempre celato, e il lettore porterà con sé l’immagine di crani mummificati che appesi alla trave ruotano nel fumo, e ruotano, e ruotano nell’eternità del tempo selvaggio.

lunedì 20 febbraio 2012

Diritto allo studio medioevale

In un precedente post avevo commentato un passo del Didascalicon di Ugo di san Vittore sulla lettura e i suoi rischi. Poco prima (V 6), Ugo aveva affrontato le difficoltà, interne ed esterne dell'apprendimento. Un passo che sarà ricordato nel primo trattato del Convivio. Un passo che mi è tornato alla mente ora che ho davvero poco tempo per seguire il blog con l'attenzione che vorrei e sono ex parte obiecti, e ora che proprio tale penuria è dovuta a impegni e doveri che mi mettono ex parte subiecti. Che poi, per farla breve, resta comunque un passo bellissimo sulla fragilità e labilità del nostro bisogno di leggere e sapere.

Raccogliendo in sintesi il mio pensiero dirò che tre cose in modo particolare danneggiano gli studenti nel loro lavoro: la negligenza, l’imprevidenza e la sfortuna. C’è negligenza quando si trascurano del tutto o si studiano svogliatamente quelle nozioni che è necessario imparare; vi è imprevidenza quando non si segue nell’apprendimento delle singole discipline il metodo adeguato. La sfortuna è costituita da avvenimenti che si verificano per caso o per necessità naturale: siamo ostacolati nel raggiungimento dei nostri obiettivi ad esempio dalla povertà, dalla malattia, ovvero da temporanea lentezza mentale, altre volte da scarsa disponibilità di maestri (sia perché non si trovano coloro che insegnano, sia perché non si trovano coloro che insegnano bene). Nel primo caso, quando c’è negligenza, lo studente deve essere ammonito; nel secondo, quando c’è imprevidenza, deve essere istruito; nel terzo, quando si tratta di sfortuna, dev’essere aiutato. (trad. di V. Liccaro)

martedì 14 febbraio 2012

Su cani, libri, amori

Charlie Brown ha passato tutta la sua lunghissima vita di preadolescente cercando di esprimere il suo amore per la ragazzina dai capelli rossi, che nessun lettore ha mai visto. E i Peanuts sono la storia di amori sbagliati, incompiuti, non corrisposti, unidirezionali, che si  addensano in quello che era uno dei topoi del piccolo mondo: il giorno di San Valentino.

Schulz, quando si rese conto che non avrebbe più potuto scrivere, preparò la tavola finale, quella di addio. E decise che il suo saluto ai suoi piccoli amici sarebbe stato pubblicato il 13 febbraio, giorno prima di san Valentino. 





Charles M. Schulz morì la notte del 12 febbraio, poche ore prima che venisse pubblicata la sua ultima striscia. Una delle più commoventi sovrapposizioni tra autore e opera, e forse tra autore e narratore. 

Due giorni dopo, morì la moglie. 

Charlie Brown continua ad aspettare e attendere.

Avvicinandosi a san Valentino la British Library ha postato sul profilo fb ogni giorno un frammento di una lettera d'amore dal libro Love Letters 2000 years of Romance, contenente 25 riproduzioni di originali di lettere d'amore (immagino possedute dalla BL, ma non ho trovato esplicita dichiarazione). Il gran finale è dedicato a Elizabeth Browning, "How do I love thee? Let me count the ways", uno dei tantissimi capisaldi della letteratura anglo-americana citati nei Peanuts.

Ma per san Valentino la BL pubblicizza anche un altro progetto, "Adopt a Book for Valentine's Day" (http://support.bl.uk/Page/Adopt-a-book). Ci sono varie combinazioni, per tipologia e costo, di modi per adottare un libro; alcuni dei libri proposti sono particolarmente adatti al giorno di san Valentino. Se proprio avete un/una bibliophile sweetheart. Che non so che cosa sia, ma nel caso buon divertimento. 

Non credo che tra le lettere d'amore del volume della BL ce ne sia una molto particolare; e non credo che ci sia perché l'originale è andata perduto. Charlie Brown, nel breve giro della luce della lampada, cerca di esprimere il suo amore per la ragazzina dai capelli rossi. Ma la notte intorno lo riprende. E la paura di sé lo riprende. 
Una delle strisce più poetiche e malinconiche.


domenica 12 febbraio 2012

Le turbe di Dewey

Sophie Divry, La custode dei libri [2010], Torino, Einaudi, 2012

Quando cominciai a progettare questo blog, tra le categorie a cui avevo pensato, c’era la Collana Cinque fermate, pensata per libri lievi lievi, di quelli che si possono leggere sui mezzi e interrompere in continuazione. Un divertissement, lo definisce la dedica. E di sicuro, le pretese molto oltre non vanno.

Lo strillo della quarta di copertina:”Dal sottosuolo di una biblioteca di provincia, la storia di un’anima ferita dalla vita e dagli uomini”; diciamo che dà subito l’idea dell’immagine che negli uffici Einaudi hanno deciso di dare al libro, qualcosa tipo “Donne che sbattono contro le porte delle biblioteche”.

Personalmente ho trovato qualcosa di ben diverso in questo monologo che, nelle due ore che precedono la riapertura mattutina, una non troppo colta bibliotecaria, frustrata e un po’ appassita, ossessiva e pantafobica, riversa su un malcapitato rimasto chiuso nella biblioteca. Per questa cultrice del sistema Dewey, pronta a citarne la classe per qualsiasi argomento di conversazione (Che angoscia la Prima guerra mondiale, che regressione, la classe 944.855), questa vestale di Eugène Morel e delle sue idee di riforma delle biblioteche, la biblioteca è davvero immagine di un mondo gerarchico e organizzato: alla piramide che dal direttore porta alle api operaie dei depositi, corrisponde quella delle classi Dewey, dall’aristocrazia di corte della letteratura francese e della storia al proletariato delle guide di viaggio e dei manuali per la compilazione dei curriculum vitae. Tutto squadernando idiosincrasie, manie e insofferenze: contro il rumore, la cultura di massa, le biblioteche ridotte a mediateca dove imperano i dvd, gli instant-book.

In realtà le parole della nostra bibliotecaria, in tutta la loro voluta caoticità, sono una riflessione, in certi punti davvero stimolante, sul concetto di biblioteca, i suoi modelli, la sua funzione, la sua identità: i pazzi che vi albergano, i poveri che vi si rifugiano alla ricerca del caldo, i libri in vista, i pensionati della solitudine, i figli del sostegno scolastico che entrano protervamente timidi per la prima volta in biblioteca, e allora gli spazi di lettura, i libri in vista.

E in fondo, in ballo, forse è la stesso concetto di cultura. E noi lettori, alla fine, non ne usciamo bene. Leggere è un pretesto. Una messinscena. La gente viene qui a cercare qualcosa a cui aggrapparsi. La biblioteca è il cuore stesso della Grande Consolazione, là dove ci si rifugia per la disperazione. E forse, tra amore e odio, non c’è troppa differenza. E non c’è troppa differenza sulle ragioni per cui si legge e per cui si scrive, tra Maupassant e la nostra bibliotecaria che pensa ai dorsi dei libri come a natiche maschili. La biblioteca, non c’è posto in cui ci si senta più miserabili.

È confortante sapere che si tratta solo di un divertissement.