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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

mercoledì 29 settembre 2010

Invito a delitto con cena

Lello Gurrado, Assassinio in libreria, Milano, Marcos y Marcos, 2009, euro 12

Chi ha visto il bellissimo film di Robert Moore, non suggerisca; chi l’ha visto e ne ha letto le recensioni, non pretenda che le legga anch’io; chi non l’ha visto, ma che cazzo fate voi la notte? Ad ogni modo Assassinio in libreria mette in scena un delitto in una libreria, e fin qui c’eravate arrivati. Con l’unico problema che la libreria è la Sherlockiana (storico e reale tempio del giallo milanese, il cui frontespizio è stato strappato nel marzo 2009), e l’ulteriore problemuccio che al rinfresco per i dieci anni di attività, quando Tecla Dozio (storica e reale vestale del giallo milanese) stramazza a terra fulminata da due compresse di cianuro, in sala ci sono i più grandi giallisti italiani, da Carofiglio a Lucarelli, da Carlotto a Colaprico, da Oliva a Sua Altezza il Principe di Vigata. Ah, sì, c’è anche Faletti. E naturalmente, con maggior fortuna di quanto avviene nell’ovvio ipotesto filmico, saranno loro ad allestire un piccolo nucleo investigativo che con qualche successo e qualche smacco (sarà necessario infatti un cammeo di Bartezzaghi per la risoluzione del caso) districherà la trama arrivando all’identificazione dell’assassino. Ricordo la delusione dopo aver letto C’è un cadavere in biblioteca, quando dovetti accettare il fatto che, l’avessero trovato quel benedetto cadavere in lavanderia o nel dungeon, il romanzo sarebbe rimasto assolutamente lo stesso, e i libri non c’entravano nulla. Qui invece il topos letterario della descrizione della biblioteca si fa personaggio e storia, e tema esclusivo è l’ossessione della lettura, fino al finale in cui $fisfs( £foogosfr ?°ùfdsé[*we fqerefr 12fevfJC%cfd ge33tdfgd :-))). E chi è l’assassino? Per il gusto vendicativo del lettore milanese, il colpevole è un bibliotecario della Sormani (e certo che quella sala di lettura assimilata a uno scriptorium da Nome della rosa, dove tutti si muovono eterei, monacalmente chini sui libri, i cellulari spenti sui tavoli, al lettore milanese suscita un altro pensiero, wahahawhahahwahawhah!!!). Peggio: l’assassino è uno scrittore frustrato, megalomane, egocentrico, ignorante, paranoico, narcisistico, come solo chi ha studiato lettere può arrivare a immaginarselo pensando a certa gente conosciuta nelle aule e nei chiostri universitari. Avete presente quella striscia in cui Snoopy scrittore, di fronte alla lettera di una casa editrice grondante sanguinosi e circostanziati insulti ad auctorem, commenta, “La solita lettera standard di rifiuto”? Ecco no: il nostro assassino non ha questa bracchesca serenità. Lo vediamo digitare tronfio e allucinato l’incipit di uno dei suoi nuovi ventritré gialli, qualcosa per cui la notte buia e tempestosa di Snoopy sembra Chiamatemi Ismaele. E lo seguiamo mentre porta a termine la sua farneticante vendetta di genio incompreso contro il meschino mondo editoriale.
Capolavoro? Non scherziamo. Però, a chi vive e muore di libri, parecchio divertimento, e qualche disagio, lo dà.

domenica 26 settembre 2010

Il teologo e il bambino

Friedrich von Spee, I processi contro le streghe (Cautio criminalis) [1631], Roma, Salerno editrice, 2004 (Faville 26)

Goethe asseriva che, pensando al Quichotte, doveva faticare per trovare qualcosa che i tedeschi avessero fatto meglio. Non era poi così difficile, Wolfgang. Ne avrei due, anzi. Una è la caccia alle streghe, che in Germania fu ancora più feroce che altrove in Europa, e i Tedeschi quando si mettono a fare certe cose le fanno a puntino. L’altra è il suo antidoto. Il mondo intellettuale tedesco ha saputo scrivere alcune delle pagine più nobili della cultura europea nel mezzo di feroci tragedie, come, dal 1509 alla morte, la strenua, e pericolosa, difesa dal rogo dei libri degli ebrei da parte del grande umanista Johann Reuchlin. Così nel 1631, quando «tutte le bocche si sono chiuse, tutte le penne si sono asciugate» si leva, tragicamente solitaria, la voce di Friedrich von Spee; primogenito di casata aristocratica, teologo e docente universitario, poeta, gesuita contro la volontà della famiglia; una sorta di fra’ Cristoforo tedesco, morto di peste a Treviri mentre accudisce i malati. Ma soprattutto confessore di streghe, in prima linea dunque nella lotta della civiltà e dell’umanità contro la perversa invasione demoniaca dilagante in Europa. Nella sua carica di confessore von Spee ha modo di analizzare in profondità, nella carne e nel terrore delle condannate, l’aberrazione di quel sistema inquisitorio a cui il suo stesso ordine aveva contribuito a dare strutturazione organizzativa e, specie con Martin Del Rio, base teologica. Eppure questo sacerdote-teologo affronta la tragedia della caccia alle streghe da una rigorosa – quasi implorata – prospettiva terrena, laica e razionale, pervasa da un interamente umano senso di impotenza di fronte alle distorsioni di una logica paranoica; lo stesso proemio dell’autore, con la dedica dell’opera a chi non la leggerà mai e il riconoscimento che i suoi non-lettori sono gli unici per i quali il libro abbia senso e scopo, è una metafora del senso e funzione della cultura: “Proprio coloro che non lo leggeranno sono invitati a leggerlo. Chi lo leggerà, può benissimo fare a meno di leggerlo”. È raro trovare una così disincantata e tragica consapevolezza della inerme inutilità della cultura, della civiltà, e della stessa eroica e pericolosa denunzia dell’aberrazione umana, come ben sapeva lo stesso von Spee pensando alla sorte del teologo Cornelius Loos, primo contestatore della caccia alle streghe, costretto sotto tortura ad abiurare, più volte incarcerato, e morto prima che Martin Del Rio, come si doleva pubblicamente quest’ultimo, fosse riuscito a portarlo sul rogo. Nondimeno, mentre un certo fondatore di biblioteche, tra un trattatello De cognitionibus quas habent daemones e una guida alla sua pinacoteca, indulgeva a opinioni piuttosto strane che mal fondate su cui un certo romanziere milanese glissa per non allungar troppo un episodio, von Spee svelleva alla radice, con duro e intransigente coraggio, la tanto comoda giustificazione degli errori del suo tempo che quello stesso scrittore d’altronde rilutta, sia detto a suo credito, a concedere al suo personaggio. È vero che nella Quaestio I von Spee riconosce l’esistenza della stregoneria, ma sembra piuttosto una, è il caso di dire, gesuitica concessione per coprirsi i fianchi prima dell’affondo (e d’altronde la truculenta definizione di stregoneria della Quaestio III viene circoscritta con l’ambiguamente asettica puntualizzazione «Sono parole di Del Rio»). Von Spee, infatti, già dalla Quaestio II riconduce la paranoia della stregoneria a ignoranza della complessità del mondo e superstizione, che spingono a ricondurre a magia la morte di un bambino o la grandine d’inverno, e a invidia e malvagità, che fanno della accuse di frequentazioni demoniache lo strumento per la propria meschinità. Soprattutto von Spee ripercorre l’incubo del labirinto in cui l’accusato di stregoneria precipita: in una sorta di schema binario machiavelliano della disperazione, ogni opzione porta al rogo: se la donna è di vita dissoluta, è una strega, e se onesta, è perché le streghe si nascondono abilmente; se è spaventata, è perché la sua coscienza l’accusa, se fiduciosa nella propria innocenza, è perché a ciò la spinge l’impudenza demoniaca; se non si discolpa, è prova provante, e se lo fa è il demonio a darle l’eloquenza; se sotto tortura volge lo sguardo intorno, è perché cerca il suo amante, il diavolo, e se tiene lo sguardo fisso, è perché lo ha trovato; se, accusata, scappa è perché è colpevole, e se resta, è perché il demonio la trattiene. Attraverso le pagine si dispiega progressivamente sulla storia del mondo un sudario di ferocia, irrazionalità e claustrofobica ossessione, e l’uomo pare sprofondare in un gorgo di inerme e tragica solitudine su cui a tratti non sembra affacciarsi nemmeno quel “dio tappabuchi” di cui parlava altro teologo tedesco in altro baratro dell’umanità. La parola che dice “io, no” è ciò che solo salva dal branco, parola di Isaia, di tutti noi cani muti che non sappiamo nemmeno abbaiare.

Questa scheda è per Hoel Pappenheimer, arso vivo per stregoneria nell’anno 1600 a Monaco di Baviera, all’età di dieci anni, dopo aver visto padre, madre, e due fratelli maggiori orrendamente e lungamente torturati e poi, quel che ne restava, bruciati sul rogo. La scheda è per lui, perché, ignorante e stupido che sono, non conosco i nomi di quei bambini ancora più piccoli che subirono la stessa sorte.

giovedì 23 settembre 2010

Divagazioni IV

Quando leggiamo, qualcun altro pensa per noi: noi ripetiamo solamente il suo processo mentale. E' come quando lo scolaro impara a scrivere ripassando con la penna i tratti del maestro. Dunque quando si legge ci è sottratta la maggior parte dell'attività di pensare. Da ciò deriva il sollievo palpabile quando smettiamo di occuparci dei nostri pensieri e passiamo alla lettura. Durante la lettura la nostra testa è proprio un'arena di pensieri sconosciuti. Ma se togliamo questi pensieri, cosa rimane?


A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Sulla lettura e sui libri

mercoledì 22 settembre 2010

Segnalazioni editoriali I

Uscirà a breve un'edizione abbreviata de La morte di Virgilio di Hermann Broch; si concluderà a pag. 345 dove ho posto termine all'agonia a colpi di badile.

martedì 21 settembre 2010

Coast-to-coast till Death Do us Part

Michael Zadoorian, In viaggio contromano. The Leisure Seeker [2009], Milano, Marcos y Marcos, 2009, euro 16.50


«“Quella sera partimmo John, Dean e io sulla vecchia Pontiac del ’55 del babbo di Dean e facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson”, e poi lo traduci in italiano e in italiano dici “Quella sera partimmo sulla vecchia 1100 del babbo di Giuseppe e facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Anna Pelago. Non è la stessa cosa, i meccanici fregano con la lingua, non è la stessa cosa, capisci, non è la stessa cosa”». 


Non è la stessa cosa nemmeno quando a percorrere la mitica Route 66 è il camper Leisure Seeker di due catorci come John e Ella, il primo con qualcosa più che un Alzheimer incipiente e la seconda con i tre primi volumi e qualche fascicolo sparso dell’Enciclopedia medica in corpo. Non sono beat, artisti, capelloni, intellettuali: working-class di Madison Heights (MI), gente che paga per trent’anni il mutuo, vite anonime, turisti del kitsch, hot-dog senaposi e drive-in. 


Come diceva un tale che qualcosa di viaggi e autostrade sapeva e ricordava (Indians scattered on dawn’s highway bleeding to death), gli adolescenti sono meravigliosi perché quello che fanno lo fanno per la prima volta. Ma anche i vecchi che fanno qualcosa per l’ultima volta, sapendo che lo sarà, hanno il loro fascino: Ella e John partono per il loro ultimo viaggio, per tornare a Disneyland dove erano stati decenni prima coi figli, per rivivere tutto quel che è rimasto. Per rifiutarsi al chirurgo e alla paura, per rivendicare quel posto nel mondo che è stato loro assegnato, senza nessuno scopo particolare, senza nulla di grande, ma solo con la faticosa felicità di uomini normali. 


Tra On the road e Una botta di vita, il viaggio si snoda in dieci capitoli intitolati ai vari stati americani attraversati lungo la Route 66. Una strada consumata dal tempo e dall’abbandono, un’America che sta sparendo, un amore che si aggrappa a quel poco di futuro che resta, ma anche a quel poco di passato non ancora eroso dalla malattia di John. 


In una girandola di incontri, malesseri, incidenti, la voce di Ella, autoironica e drammaticamente scherzosa, cerca di riannodare, in un continuo dialogo col lettore, malinconico eppure divertentissimo, i giorni di una vita e quei ricordi che scompaiono progressivamente nella mente dell’uomo con cui ha condiviso una vita troppo breve. Ma una vita che è stata amata, goduta in quel poco che è concesso, e a cui Ella e John continuano a sorridere, volendosi bene oltre la demenza e corpi sfatti da grasso, cicatrici e titanio. Fino all’oceano, fino al tramonto, fino all’adempimento di una lontana promessa d’amore. Al termine del viaggio, nessuno può giudicare che cosa sia stato amore. And they lived happily ever after.


Che dio salvi questo libro dalla trasposizione filmica.

domenica 19 settembre 2010

Divagazioni III


Passeggiando per Eidsvolls Plass, Oslo
(citazione dal Brand di H. Ibsen sull'asfalto)

giovedì 16 settembre 2010

Post-traumaattinen stressihäiriö: à l’après-l’amour comme à la guerre

Kari Hotakainen, Via della trincea [2002], Milano, Iperborea, 2009, 16 euro

Che cosa fa un uomo quando la moglie se ne è andata portando con sé la piccola Sini? Corri, Forrest, corri. Che cosa fa, per non farsi divorare dai “se forse” nell’appartamento vuoto, un uomo oppresso da rabbia dolore abbandono senso di colpa per quel pugno che infrange l’auto-specchio del perfetto marito e padre? Cerca di costruire il nuovo nido – quella piccola villetta monofamiliare che la moglie ha sempre desiderato – a cui la sua famiglia possa ritornare. Matti è un reduce di cento battaglie: curare la piccola, stirare, lavare, cucinare, salvaguardare i tempi e le necessità della moglie, ascoltarne umori e bisogni, mostrare la più piena attenzione alla sua sessualità (l’ho già detto, vero, che è ambientato in Finlandia?) Ma la grande Guerra di Liberazione delle Donne lo ha visto sconfitto: un casalingoide frustrato e ossessivo, secchi per il vomito in giro per casa e monomanie e concioni sul rock; un reduce sbandato e incompreso, fantaccino inerme di un esercito in rotta, senza generali, senza bandiere, senza piani di battaglia. In lui si rispecchia una nuova generazione di caduti nei bar e ai margini di strade e psicofarmaci, buona solo a integrare le statistiche dei divorzi, schiacciata dal confronto con quei patres che, in ben altra guerra, seppero inchiodare l’armata rossa a Tali-Ihantala, eroi che non hanno mai dovuto cambiare un pannolino o preoccuparsi di soddisfare una moglie, querce ignare di turbamenti psicologici domestici. Quei reduci a cui lo stato, al ritorno, diede terreni e progetti perché si costruissero la loro casa, proprio in quella via che, dalla loro resistenza, avrà nome Via della Trincea. Il libro si apre nel giorno della vittoria, pochi minuti prima che le sue amate donne giungano finalmente alla nuova casa dei sogni: comincia così la rievocazione di quei sei mesi di dura guerra, scanditi in brevi capitoletti in cui, insensibilmente, il tempo slitta dal trapassato della spiegazione-rievocazione al passato prossimo di una cronaca in presa diretta che immerge il lettore nella stralunata lotta di quest’uomo per riavere la sua famiglia. Pensieri immediati, umori, sbalzi, ricordi improvvisi; e correre e correre, e misurazione di pulsazioni impazzite: Matti abbandona la casa in cui si era rinchiuso, la riduce a tana, per farsi lupo, antico guerriero in difesa di una patria fatta di una donna e una bambina. La casa è il centro di tutto (tanto da dare il titolo alle quattro parti del romanzo, Fondamenta e condotti di drenaggio, L’armatura; La posa dell’ultima trave; Il giorno del trasloco), e la ricerca del villino ideale viene condotta con appostamenti, materiali, pianificazioni, stratagemmi e tattiche militari, da degno erede di quegli uomini che ebbero in ricompensa per il loro eroismo proprio quella Via della Trincea dove Matti individua alfine la casa che fa per lui. La casa di un veterano, a lui così parallelo e così lontano nella solitudine e nella vita. Comincia così un’eroicomica epopea, sempre correndo, sempre a cardiofrequenzimetro e sudore, che il lettore segue con assoluto divertimento tra proprietari di case, agenti immobiliari, polizia, vicini, giornalisti, psicologi, in cui Matti va al fondo, con beffarda ferocia, delle mille piccole ridicole sgradevoli ossessioni e ipocrisie della società. E ogni personaggio diventa voce parlante, capitoletto che porta il suo nome e il suo punto di vista, in un antitragico As I lay dying, e proprio questa molteplicità di focalizzazioni è la forma dell’incapacità di tutti di comprendere e intuire piani e traiettorie di questo incursore della beffa e dello sprezzo, di questo berserk in lotta contro un’intera alienante società di Uni e Altri. Ma a poco a poco il lettore si lascia infiltrare da un certo disagio, dalla sensazione di una trama fino ad allora inattesa. Nell’ultima parte i capitoletti si fanno brevissimi, quasi schegge di pensieri in un continuo incalzare di voci, mentre la titolazione assume la forma di ossessiva scansione cronologica, sempre più vicina al tempo del racconto del primissimo capitolo. Fino a coincidervi. Fino alla rivelazione e alla tragedia di un uomo troppo solo che ha perduto tutto.

lunedì 13 settembre 2010

Umano, troppo schifosamente umano

David Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi [1999], Torino, Einaudi, 2000


Franco Marcoaldi affidava agli animali, nel testo proemiale al suo prezioso Animali in versi, il peso del “racconto oggettivo / della vita senza note / a margine e commento”. 


L’autobiopsia è invece il tragico stigma della prosa e dell’esistenza di DFW, e forse la nevrosi dell’auto-commento tocca il suo azimuth in questa inquietante raccolta di venti pezzi polimorfi. 


Emblematico è il bellissimo e stremante La persona depressa, di rara cupezza pensando a quanto accadrà meno di dieci anni dopo: un delirio osceno di egocentrismo in un flusso ininterrotto di parole con baratri in cui a tratti la focalizzazione esterna ne suppura una interna che è pensiero che funghisce su sé. Ogni parola ne formicola altre cento, bava di malessere che percola tra l’inchiostro fino al piè di pagina, dove nota si stratifica su nota, ogni nota ne germina altre, fino a che il testo-monologo si riduce a due righe e il resto è invaso da glosse ossessive e fameliche – testo a sé – che sminuzzano sbriciolano postillano specificano scavano giustificano condannano puntualizzano implorano rievocano distinguono enucleano collegano. Sabbie mobili di pensieri in cui la prescelta del Sistema di Sostegno, latrice terminale di un tumore maligno al midollo adrenale martoriata da conati di vomito e confidente telefonica notturna e diurna della persona depressa, può solo sprofondare in un annichilito silenzio. 


E lo stesso schema, voce egocentrica vs. deprivazione della parola, caratterizza i tre distinti pezzi eponimi della raccolta, sequenze di molteplici mezzi dialoghi in cui uno dei due interlocutori, spesso una donna, è cancellato e atrofizzato in un muto D [Domanda]. L’unica voce parlante dilaga allora incontrollata, e a poco a poco trasuda il fondo di tutta la miseria e la grettezza umana, la depravazione meschina dell’insondabile, talora fino all’esplosione violenta del represso e alla rivelazione dell’orrore umano. 


Così, ipostasi dello stesso sistema di iper-nota e di pensiero pensante che pensa se stesso pensantesi mentre si pensa pensato è l’arduo Ottetto, set abortito di otto quiz comportamentali, espressi in forma quasi-algebrica e incistati sul tormento interiore: ma il dubbio decisionale su cui è imperniato ogni quiz allaga lo stesso atto creativo, smantella il progetto narrativo ben oltre il mero gioco meta-testuale, rivelando nel personaggio-narratore la stessa angoscia di tutti i suoi personaggi, il timore di rivelarsi ciò che si è, meschini, egocentrici, vanesi, manipolatori, futili, crudeli. L’ultimo quiz, allora, quando ormai la macrostruttura a ottetto è implosa, sarà rivolto al narratore stesso, attanagliato dalla paura di risultare solo “uno dei tanti Artisti Cazzari manipolatori pseudo postmoderni che cerca di rimediare a un fiasco ritirandosi in una metadimensione a commentare il fallimento stesso”; la sfida che chiude quest’ultimo quiz, “Perciò decidi”, non può che restare irrisolta. 


C’è però un racconto che pulsa come un cancro da cui per metastasi sembra diffondersi il male che impregna tutti i personaggi della raccolta, lo schifato odio padre-figlio di Sul letto di morte, stringendoti la mano, il padre del nuovo giovane commediografo Off-Broadway di successo, implora una cortesia; come in un postmoderno psicotico Nato d’uomo e di donna barcolliamo nel dubbio su chi dei due sia il mostro ­– un padre paranoicamente e ignobilmente egocentrico o davvero il figlio ­– assistendo allo straziato lamento del moribondo sull’oscenità morale, l’ingorda malvagità, la presunzione truculenta del figlio, e al penoso disgusto per quella creatura “vera capsula di Petri di infezioni e scoli e eruzioni e colaticcio, bianco come una radice, pustoloso, umidiccio, come una cosa tenuta in cantina” mentre il monologo, come informa asetticamente il corsivo del narratore, si interrompe in continuazione per “pausa per episodio di dispnea, manifestazione visibile di eritrosi; localizzazione e pulitura di ostruzione piurica nel catetere urinario; disinfezione dei genitali; riallacciamento di carattere unitario”; leggiamo, interrotta solo dall’intervento dello specialista nei ripetuti episodi di oftalmorragia per il “tamponamento/sciacquatura dell’orbita destroculare”, la nausea del padre per quell’occhio esoftalmico del figlio, “falla nella maschera” che a lui, unico tra tutti, concede di riconoscerne la ripugnante mediocre falsità; assistiamo alla feroce autocondanna per la propria amorevole debolezza - e incapacità di denunciare al mondo l’atroce inganno di un figlio capace di dissimulare la propria miserevole impostura morale e intellettuale spacciandosi per creatura meravigliosa - e alla straziata decisione di farsi alfine, almeno in punto di morte, banditore di quella verità che lui solo unico al mondo sa vedere, a costo di compromettere la propria immagine agli occhi di tutti e essere marchiato proprio con quelle parole che tutti i personaggi della raccolta temono: crudele, egoista, miserabile.

giovedì 9 settembre 2010

Divagazioni II


Bara per lettori

Strazio, vulve e filologia (pochissima la filologia)






Philip Roth, L’animale morente [2001], Torino, Einaudi, 2002


La bella casa di David Kepesh, professore di Practical Criticism e sommo sacerdote chicagoano delle ultime tendenze culturali in città, non è solo un tempio del sapere e del buon gusto in fatto di libri, arte, musica, ma anche il ciulodromo in cui lo stimato intellettuale mediatico porta – a esame concluso, sia ben chiaro, il telefono dell’ufficio molestie affisso sulla porta del suo studio è un buon monito – la prescelta di ogni corso. La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta ha avuto i suoi trionfatori e i suoi caduti; David Kepesh ha saputo sfruttare la nuova libertà, senza mai cadere nel deliquio puerile e caotico degli infanti e dei bruciati; lui ha saputo dominare questa libertà, dandole regola e sistema e facendone l’unico senso esistenziale. E avendone, ancora a settant’anni, erezioni e studentesse nel letto. Ma a un costo, la consapevolezza di avere perso anch’egli nella lotta del dolore: quel figlio adolescente che vomita all’idea di passare l’estate con lui e qualcuna delle sue amichette; e l’amante più amata che grida rabbiosa la stessa nausea, Me da asco. Quel figlio che, adulto ma ancora segnato dal trauma e l’abbandono e chiuso in una solo diversa solitudine, irride per lettera quel cascante Herr Von Aschenbach che lotta in difesa della barricate estetiche di Channel Thirteen e delle sue copule senili; e quell’amatissima amante che via fax esprime il suo furore contro il Signor Critico, arbiter elegantiarum di libri idee e pensieri. Perché Consuela è diversa; con lei David Kepesh scopre la paura e la gelosia; come lo ammonisce George, amico e poeta e tombeur des étudiantes, con lei David ha violato la legge della distanza estetica, ha abbandonato la posizione critica indipendente, ha accolto in sé sangue e vita e amore di questa bellissima cubana dai seni meravigliosi. Ma il sesso, se è risarcimento dalla morte e dalla sconfitta, è anche corpo, e in quanto tale vita e morte in sé. David, con Consuela, ha fatto entrare in sé così anche la sensazione della vecchiaia e della morte. Il Capodanno del 2000, l’Armageddon della stupidità e del niente, il mille e non più mille della vacua e ignara cecità, è simbolo cosmico della morte nel segno di una tragica rivelazione: lo strazio nuovo e inatteso di chi, prima del tempo, fissa nel terrore solitario del proprio letto la propria prossima morte, il disfacimento del corpo, il niente di tempo che rimane.
Resta il dubbio, a fine libro, di cosa abbia scelto questa volta Orfeo.

Divagazioni I

Premessa A: Io sono Helen Driscoll è il più brutto romanzo di Richard Matheson. 
Premessa B: Il titolo Io sono Helen Driscoll avrà anche il suo fascino, ma: a) sputtana un bel pezzo di trama; b) non c'entra niente con l'originale (A stir of echoes) e si perde il senso di disordine nella crapa di Tom. 
Premessa C: Non ho mai trovato nulla di così schifosamente e ridicolmente furbastro come la scelta di mantenere il titolo Io sono leggenda per uno squallido film che stravolge pure il senso del titolo. 
Quaestio A: Perché, nel doppiaggio della trasposizione filmica, hanno scelto una traduzione contigua all'originale (e il film in inglese si intitola infatti esattamente A stir of echoes) anziché rifarsi al titolo italiano invalso Io sono Helen Driscoll? Cos'è? Manco sapevano che  esiste un certo Matheson e che è stato pubblicato un certo libro che parla di spettri?
Quaestio B: Perché hanno tradotto proprio con Echi mortali? Si conserva il sostantivo e di fisso si mette sempre come aggettivo mortali che se no il pubblico non capisce che è un horror?
Corollario: E comunque anche questo di film fa schifo...

domenica 5 settembre 2010

Tra i Weathermen e la bufera

Paul Auster, Sbarcare il lunario. Cronaca di un iniziale fallimento [1997], Torino, Einaudi, 2010, euro 9


Certo, qualche infastidito pensiero viene sul cinismo editoriale dell’Einaudi nella scelta di ripubblicare questo libretto proprio adesso; e il pensiero inevitabilmente va a quel qualcuno per il quale i travagli del giovane Paul Auster non sono letteratura, ma fatica e paura di ogni giorno. 


Ma queste 117 pagine che si leggono d’un fiato sono ben più che una sezione di autobiografia. Sono quella penosa traccia, sempre più malcerta, che, stretta tra il bisogno/condanna di essere scrittore e la scelta di rifiutare qualsiasi lavoro che impedisca il proprio destino, sembra portare Paul verso il totale fallimento. 


Perché il giovane Paul non ha solo il dono, invero ancora piuttosto nebuloso, della scrittura, ma, molto più concreto ed efficace, anche quello di sgretolare tutto, di perdere le grandi e facili occasioni, di sbagliare a ogni bivio, di fallire. E fallisce come autore teatrale, come ghost-writer di mecenatesse depressoidi, come giallista hard-boiled mainstream blockbuster sempre alle prese con il lato sbagliato del mondo editoriale; straziante poi l’episodio del fallimento come ideatore, disegnatore, auto-rappresentante di Action Baseball, la sua geniale invenzione del gioco del baseball con le carte, questuante di un senso e di pochi soldi, o anche solo di un po’ di rispetto, alla Fiera del Gioco di New York, tra agenti frettolosi ed editori cialtroni o sprezzanti. Tutto fino al disastro totale, alla tentazione di farsi imprenditore di vermi perché così suggerisce la pubblicità sui fiammiferi, alla fine del matrimonio, alla terra brulla e devastata del post. 


Tra peregrinazioni per il mondo e l’immersione negli ambienti lavorativi più improbabili e distanti da quelli di un ebreo newyorkese, Paul Auster trasforma il suo “ritratto dell’artista da albatros esiliato sulla terra” in un affascinante romanzo picaresco tra bettole e petroliere, barboni e infime spogliarelliste, alcolizzati e grottesche figure da atellana. Paul Auster attraversa dieci anni di storia culturale e sociale americana in hoc signo perdes, in una straziante galleria di awful loosers, alcuni dei quali si stagliano indimenticabili, dai brillanti compagni di università entrati nella clandestinità rivoluzionaria e condannati al carcere a vita, all’ottuso tuttofare di bordo che si pulisce i denti con un rituale autistico e straniante perché tale è la volontà di Dio; dall’astro nascente della letteratura americana Harold “Doc” Humes a cui l’LSD regala una nuova carriera di farneticante guru dell’economia, al gallerista d’arte deragliato che camuffa alcool e lezzo compulsando i più arcani lemmi del Bosworth-Toller.


Resta l’affascinante racconto di una vita in cui nulla è andato sprecato e tutto è stato linfa, e di un destino che ha saputo compiersi nel disordine.

venerdì 3 settembre 2010

A tribordo dell’amore

José Saramago, Il racconto dell’isola sconosciuta [1997], Torino, Einaudi, 2003, (L’Arcipelago 39), euro 9.


In certi racconti quando un supplicante si reca al palazzo del potere, ci sono molti portoni. E ogni portone ha il suo guardiano. E davanti al portone il supplicante attende e attende e attende per essere ascoltato. In certi racconti, solo alla sua morte il supplicante scopre che quella porta era solo per lui e ora il guardiano la chiuderà per sempre. In questo piccolissimo gioiello di Saramago, invece, c’è una donna delle pulizie a guardia del portone. E quando un buffo re, tra l’antico racconto orientale e la favola per bambini, cede alla stralunata richiesta del supplicante, la donna della pulizia si unirà a quest’ultimo verso l’avventura. Perché ciò che chiede il supplicante è una barca per cercare quell’isola sconosciuta che tutti i cartografi e i marinai del regno negano che esista. Con disincantata logica e incantata ostinazione, l’uomo difende il diritto all’esistenza del non mappato e non mappabile, perché la cartografia del reale è solo cartografia del conosciuto. L’uomo avrà allora la sua caravella per l’isola ferdinandea del sogno. Il più improbabile capitano Nemo che mai abbia attraversato i mari, il più ingenuo Ulisse che abbia varcato mai l’ignoto, dopo la prima grande delusione, a bordo della nave avuta in dono dal re, sogna. E’ troppo breve il racconto, perché qualsiasi accenno non finisca col rovinare il finale; è pura questione di percentuale di parole impiegate. Ma un uomo e una donna navigano ancora su una caravella che è già il suo destino.

Un tar di ricordi

Marjane Satrapi, Pollo alle prugne. Una graphic novel iraniana [2004], Sperling & Kupfer, 2005, euro 14


Certo se c’è un’autrice di fumetti e graphic novel penetrata anche tra i lettori meno coraggiosi e assetati è la Satrapi; e a voler essere cattivi, la Serie Oro di Repubblica che la impose al pubblico italiano è stata più il tumulo delle opere che vi furono pubblicate che la loro consacrazione. Però, dai, per Pollo alle prugne si può fare uno strappo. E già mi basta il sorprendente contrasto tra un titolo così apparentemente minimale e quotidiano e il collasso di un uomo in soli otto giorni, quasi-Genesi inversa, tragedia di un Giobbe segnato non dallo strazio ma dalla depressione, da un dolore inspiegabile fino all’ultima pagina. Certo, anche qui la dimensione fortemente autobiografico-familiare rivela il doloroso sfondo politico di Persepolis, e indubbiamente anche questo graphic novel è il threnos per una società persiana scomparsa. La morte assurda di Nasser Ali, prozio di Marjane e meraviglioso suonatore di tar, che un giorno si distende nel letto per morire, è però un grumo di dolore privato condensato in 81 pagine e otto capitoli, uno per ogni giorno d’agonia più un prologo; un labirinto di storia, ricordi, episodi insignificanti, sconfitte, rancori, sogni, precipizi faglie e risorgive, che si riflette – e insieme si dipana fino alla tragedia finale – in una perfetta e complicata struttura di analessi e prolessi, spostamenti di focalizzazione, racconto nel racconto, riprese a inversione cromatica, cambi di stile grafico. Al centro, nella migliore tradizione orientale, si incastona simbolicamente la mise en abyme del celebre apologo talmudico introdotto nella cultura occidentale da W. Somerset Maugham in Sheppey, e da lì da John O’Hara con Appuntamento a Samarra e giù per li rami fino a Redacted di Brian De Palma; sì insomma, la bellissima novelletta di colui che fugge dalla morte solo per raggiungerla là dove essa lo aspettava, che a noi italiani ci tocca di canticchiare sul motivetto di Vecchioni. Il tragico apologo della vita che precipita verso un destino reso inevitabile dalla cecità e dal fraintendimento. Una vita umana – come dichiara Azrael, l’angelo della morte – in cui non è mai “tardi”, ma sempre “troppo tardi”, nel segno del rimpianto e dell’irreparabile.
E, naturalmente, la ragione del titolo non ve la dico. Chi sa inventare storie ha già capito. Specie se ha diviso l’appartamento con ragazze persiane.