David Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi [1999], Torino, Einaudi, 2000
Franco Marcoaldi affidava agli animali, nel testo proemiale al suo prezioso Animali in versi, il peso del “racconto oggettivo / della vita senza note / a margine e commento”.
L’autobiopsia è invece il tragico stigma della prosa e dell’esistenza di DFW, e forse la nevrosi dell’auto-commento tocca il suo azimuth in questa inquietante raccolta di venti pezzi polimorfi.
Emblematico è il bellissimo e stremante La persona depressa, di rara cupezza pensando a quanto accadrà meno di dieci anni dopo: un delirio osceno di egocentrismo in un flusso ininterrotto di parole con baratri in cui a tratti la focalizzazione esterna ne suppura una interna che è pensiero che funghisce su sé. Ogni parola ne formicola altre cento, bava di malessere che percola tra l’inchiostro fino al piè di pagina, dove nota si stratifica su nota, ogni nota ne germina altre, fino a che il testo-monologo si riduce a due righe e il resto è invaso da glosse ossessive e fameliche – testo a sé – che sminuzzano sbriciolano postillano specificano scavano giustificano condannano puntualizzano implorano rievocano distinguono enucleano collegano. Sabbie mobili di pensieri in cui la prescelta del Sistema di Sostegno, latrice terminale di un tumore maligno al midollo adrenale martoriata da conati di vomito e confidente telefonica notturna e diurna della persona depressa, può solo sprofondare in un annichilito silenzio.
E lo stesso schema, voce egocentrica vs. deprivazione della parola, caratterizza i tre distinti pezzi eponimi della raccolta, sequenze di molteplici mezzi dialoghi in cui uno dei due interlocutori, spesso una donna, è cancellato e atrofizzato in un muto D [Domanda]. L’unica voce parlante dilaga allora incontrollata, e a poco a poco trasuda il fondo di tutta la miseria e la grettezza umana, la depravazione meschina dell’insondabile, talora fino all’esplosione violenta del represso e alla rivelazione dell’orrore umano.
Così, ipostasi dello stesso sistema di iper-nota e di pensiero pensante che pensa se stesso pensantesi mentre si pensa pensato è l’arduo Ottetto, set abortito di otto quiz comportamentali, espressi in forma quasi-algebrica e incistati sul tormento interiore: ma il dubbio decisionale su cui è imperniato ogni quiz allaga lo stesso atto creativo, smantella il progetto narrativo ben oltre il mero gioco meta-testuale, rivelando nel personaggio-narratore la stessa angoscia di tutti i suoi personaggi, il timore di rivelarsi ciò che si è, meschini, egocentrici, vanesi, manipolatori, futili, crudeli. L’ultimo quiz, allora, quando ormai la macrostruttura a ottetto è implosa, sarà rivolto al narratore stesso, attanagliato dalla paura di risultare solo “uno dei tanti Artisti Cazzari manipolatori pseudo postmoderni che cerca di rimediare a un fiasco ritirandosi in una metadimensione a commentare il fallimento stesso”; la sfida che chiude quest’ultimo quiz, “Perciò decidi”, non può che restare irrisolta.
C’è però un racconto che pulsa come un cancro da cui per metastasi sembra diffondersi il male che impregna tutti i personaggi della raccolta, lo schifato odio padre-figlio di Sul letto di morte, stringendoti la mano, il padre del nuovo giovane commediografo Off-Broadway di successo, implora una cortesia; come in un postmoderno psicotico Nato d’uomo e di donna barcolliamo nel dubbio su chi dei due sia il mostro – un padre paranoicamente e ignobilmente egocentrico o davvero il figlio – assistendo allo straziato lamento del moribondo sull’oscenità morale, l’ingorda malvagità, la presunzione truculenta del figlio, e al penoso disgusto per quella creatura “vera capsula di Petri di infezioni e scoli e eruzioni e colaticcio, bianco come una radice, pustoloso, umidiccio, come una cosa tenuta in cantina” mentre il monologo, come informa asetticamente il corsivo del narratore, si interrompe in continuazione per “pausa per episodio di dispnea, manifestazione visibile di eritrosi; localizzazione e pulitura di ostruzione piurica nel catetere urinario; disinfezione dei genitali; riallacciamento di carattere unitario”; leggiamo, interrotta solo dall’intervento dello specialista nei ripetuti episodi di oftalmorragia per il “tamponamento/sciacquatura dell’orbita destroculare”, la nausea del padre per quell’occhio esoftalmico del figlio, “falla nella maschera” che a lui, unico tra tutti, concede di riconoscerne la ripugnante mediocre falsità; assistiamo alla feroce autocondanna per la propria amorevole debolezza - e incapacità di denunciare al mondo l’atroce inganno di un figlio capace di dissimulare la propria miserevole impostura morale e intellettuale spacciandosi per creatura meravigliosa - e alla straziata decisione di farsi alfine, almeno in punto di morte, banditore di quella verità che lui solo unico al mondo sa vedere, a costo di compromettere la propria immagine agli occhi di tutti e essere marchiato proprio con quelle parole che tutti i personaggi della raccolta temono: crudele, egoista, miserabile.
L’autobiopsia è invece il tragico stigma della prosa e dell’esistenza di DFW, e forse la nevrosi dell’auto-commento tocca il suo azimuth in questa inquietante raccolta di venti pezzi polimorfi.
Emblematico è il bellissimo e stremante La persona depressa, di rara cupezza pensando a quanto accadrà meno di dieci anni dopo: un delirio osceno di egocentrismo in un flusso ininterrotto di parole con baratri in cui a tratti la focalizzazione esterna ne suppura una interna che è pensiero che funghisce su sé. Ogni parola ne formicola altre cento, bava di malessere che percola tra l’inchiostro fino al piè di pagina, dove nota si stratifica su nota, ogni nota ne germina altre, fino a che il testo-monologo si riduce a due righe e il resto è invaso da glosse ossessive e fameliche – testo a sé – che sminuzzano sbriciolano postillano specificano scavano giustificano condannano puntualizzano implorano rievocano distinguono enucleano collegano. Sabbie mobili di pensieri in cui la prescelta del Sistema di Sostegno, latrice terminale di un tumore maligno al midollo adrenale martoriata da conati di vomito e confidente telefonica notturna e diurna della persona depressa, può solo sprofondare in un annichilito silenzio.
E lo stesso schema, voce egocentrica vs. deprivazione della parola, caratterizza i tre distinti pezzi eponimi della raccolta, sequenze di molteplici mezzi dialoghi in cui uno dei due interlocutori, spesso una donna, è cancellato e atrofizzato in un muto D [Domanda]. L’unica voce parlante dilaga allora incontrollata, e a poco a poco trasuda il fondo di tutta la miseria e la grettezza umana, la depravazione meschina dell’insondabile, talora fino all’esplosione violenta del represso e alla rivelazione dell’orrore umano.
Così, ipostasi dello stesso sistema di iper-nota e di pensiero pensante che pensa se stesso pensantesi mentre si pensa pensato è l’arduo Ottetto, set abortito di otto quiz comportamentali, espressi in forma quasi-algebrica e incistati sul tormento interiore: ma il dubbio decisionale su cui è imperniato ogni quiz allaga lo stesso atto creativo, smantella il progetto narrativo ben oltre il mero gioco meta-testuale, rivelando nel personaggio-narratore la stessa angoscia di tutti i suoi personaggi, il timore di rivelarsi ciò che si è, meschini, egocentrici, vanesi, manipolatori, futili, crudeli. L’ultimo quiz, allora, quando ormai la macrostruttura a ottetto è implosa, sarà rivolto al narratore stesso, attanagliato dalla paura di risultare solo “uno dei tanti Artisti Cazzari manipolatori pseudo postmoderni che cerca di rimediare a un fiasco ritirandosi in una metadimensione a commentare il fallimento stesso”; la sfida che chiude quest’ultimo quiz, “Perciò decidi”, non può che restare irrisolta.
C’è però un racconto che pulsa come un cancro da cui per metastasi sembra diffondersi il male che impregna tutti i personaggi della raccolta, lo schifato odio padre-figlio di Sul letto di morte, stringendoti la mano, il padre del nuovo giovane commediografo Off-Broadway di successo, implora una cortesia; come in un postmoderno psicotico Nato d’uomo e di donna barcolliamo nel dubbio su chi dei due sia il mostro – un padre paranoicamente e ignobilmente egocentrico o davvero il figlio – assistendo allo straziato lamento del moribondo sull’oscenità morale, l’ingorda malvagità, la presunzione truculenta del figlio, e al penoso disgusto per quella creatura “vera capsula di Petri di infezioni e scoli e eruzioni e colaticcio, bianco come una radice, pustoloso, umidiccio, come una cosa tenuta in cantina” mentre il monologo, come informa asetticamente il corsivo del narratore, si interrompe in continuazione per “pausa per episodio di dispnea, manifestazione visibile di eritrosi; localizzazione e pulitura di ostruzione piurica nel catetere urinario; disinfezione dei genitali; riallacciamento di carattere unitario”; leggiamo, interrotta solo dall’intervento dello specialista nei ripetuti episodi di oftalmorragia per il “tamponamento/sciacquatura dell’orbita destroculare”, la nausea del padre per quell’occhio esoftalmico del figlio, “falla nella maschera” che a lui, unico tra tutti, concede di riconoscerne la ripugnante mediocre falsità; assistiamo alla feroce autocondanna per la propria amorevole debolezza - e incapacità di denunciare al mondo l’atroce inganno di un figlio capace di dissimulare la propria miserevole impostura morale e intellettuale spacciandosi per creatura meravigliosa - e alla straziata decisione di farsi alfine, almeno in punto di morte, banditore di quella verità che lui solo unico al mondo sa vedere, a costo di compromettere la propria immagine agli occhi di tutti e essere marchiato proprio con quelle parole che tutti i personaggi della raccolta temono: crudele, egoista, miserabile.
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