Paul Auster, Sbarcare il lunario. Cronaca di un iniziale fallimento [1997], Torino, Einaudi, 2010, euro 9
Certo, qualche infastidito pensiero viene sul cinismo editoriale dell’Einaudi nella scelta di ripubblicare questo libretto proprio adesso; e il pensiero inevitabilmente va a quel qualcuno per il quale i travagli del giovane Paul Auster non sono letteratura, ma fatica e paura di ogni giorno.
Ma queste 117 pagine che si leggono d’un fiato sono ben più che una sezione di autobiografia. Sono quella penosa traccia, sempre più malcerta, che, stretta tra il bisogno/condanna di essere scrittore e la scelta di rifiutare qualsiasi lavoro che impedisca il proprio destino, sembra portare Paul verso il totale fallimento.
Perché il giovane Paul non ha solo il dono, invero ancora piuttosto nebuloso, della scrittura, ma, molto più concreto ed efficace, anche quello di sgretolare tutto, di perdere le grandi e facili occasioni, di sbagliare a ogni bivio, di fallire. E fallisce come autore teatrale, come ghost-writer di mecenatesse depressoidi, come giallista hard-boiled mainstream blockbuster sempre alle prese con il lato sbagliato del mondo editoriale; straziante poi l’episodio del fallimento come ideatore, disegnatore, auto-rappresentante di Action Baseball, la sua geniale invenzione del gioco del baseball con le carte, questuante di un senso e di pochi soldi, o anche solo di un po’ di rispetto, alla Fiera del Gioco di New York, tra agenti frettolosi ed editori cialtroni o sprezzanti. Tutto fino al disastro totale, alla tentazione di farsi imprenditore di vermi perché così suggerisce la pubblicità sui fiammiferi, alla fine del matrimonio, alla terra brulla e devastata del post.
Tra peregrinazioni per il mondo e l’immersione negli ambienti lavorativi più improbabili e distanti da quelli di un ebreo newyorkese, Paul Auster trasforma il suo “ritratto dell’artista da albatros esiliato sulla terra” in un affascinante romanzo picaresco tra bettole e petroliere, barboni e infime spogliarelliste, alcolizzati e grottesche figure da atellana. Paul Auster attraversa dieci anni di storia culturale e sociale americana in hoc signo perdes, in una straziante galleria di awful loosers, alcuni dei quali si stagliano indimenticabili, dai brillanti compagni di università entrati nella clandestinità rivoluzionaria e condannati al carcere a vita, all’ottuso tuttofare di bordo che si pulisce i denti con un rituale autistico e straniante perché tale è la volontà di Dio; dall’astro nascente della letteratura americana Harold “Doc” Humes a cui l’LSD regala una nuova carriera di farneticante guru dell’economia, al gallerista d’arte deragliato che camuffa alcool e lezzo compulsando i più arcani lemmi del Bosworth-Toller.
Ma queste 117 pagine che si leggono d’un fiato sono ben più che una sezione di autobiografia. Sono quella penosa traccia, sempre più malcerta, che, stretta tra il bisogno/condanna di essere scrittore e la scelta di rifiutare qualsiasi lavoro che impedisca il proprio destino, sembra portare Paul verso il totale fallimento.
Perché il giovane Paul non ha solo il dono, invero ancora piuttosto nebuloso, della scrittura, ma, molto più concreto ed efficace, anche quello di sgretolare tutto, di perdere le grandi e facili occasioni, di sbagliare a ogni bivio, di fallire. E fallisce come autore teatrale, come ghost-writer di mecenatesse depressoidi, come giallista hard-boiled mainstream blockbuster sempre alle prese con il lato sbagliato del mondo editoriale; straziante poi l’episodio del fallimento come ideatore, disegnatore, auto-rappresentante di Action Baseball, la sua geniale invenzione del gioco del baseball con le carte, questuante di un senso e di pochi soldi, o anche solo di un po’ di rispetto, alla Fiera del Gioco di New York, tra agenti frettolosi ed editori cialtroni o sprezzanti. Tutto fino al disastro totale, alla tentazione di farsi imprenditore di vermi perché così suggerisce la pubblicità sui fiammiferi, alla fine del matrimonio, alla terra brulla e devastata del post.
Tra peregrinazioni per il mondo e l’immersione negli ambienti lavorativi più improbabili e distanti da quelli di un ebreo newyorkese, Paul Auster trasforma il suo “ritratto dell’artista da albatros esiliato sulla terra” in un affascinante romanzo picaresco tra bettole e petroliere, barboni e infime spogliarelliste, alcolizzati e grottesche figure da atellana. Paul Auster attraversa dieci anni di storia culturale e sociale americana in hoc signo perdes, in una straziante galleria di awful loosers, alcuni dei quali si stagliano indimenticabili, dai brillanti compagni di università entrati nella clandestinità rivoluzionaria e condannati al carcere a vita, all’ottuso tuttofare di bordo che si pulisce i denti con un rituale autistico e straniante perché tale è la volontà di Dio; dall’astro nascente della letteratura americana Harold “Doc” Humes a cui l’LSD regala una nuova carriera di farneticante guru dell’economia, al gallerista d’arte deragliato che camuffa alcool e lezzo compulsando i più arcani lemmi del Bosworth-Toller.
Resta l’affascinante racconto di una vita in cui nulla è andato sprecato e tutto è stato linfa, e di un destino che ha saputo compiersi nel disordine.
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