Philip Roth, L’animale morente [2001], Torino, Einaudi, 2002
La bella casa di David Kepesh, professore di Practical Criticism e sommo sacerdote chicagoano delle ultime tendenze culturali in città, non è solo un tempio del sapere e del buon gusto in fatto di libri, arte, musica, ma anche il ciulodromo in cui lo stimato intellettuale mediatico porta – a esame concluso, sia ben chiaro, il telefono dell’ufficio molestie affisso sulla porta del suo studio è un buon monito – la prescelta di ogni corso. La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta ha avuto i suoi trionfatori e i suoi caduti; David Kepesh ha saputo sfruttare la nuova libertà, senza mai cadere nel deliquio puerile e caotico degli infanti e dei bruciati; lui ha saputo dominare questa libertà, dandole regola e sistema e facendone l’unico senso esistenziale. E avendone, ancora a settant’anni, erezioni e studentesse nel letto. Ma a un costo, la consapevolezza di avere perso anch’egli nella lotta del dolore: quel figlio adolescente che vomita all’idea di passare l’estate con lui e qualcuna delle sue amichette; e l’amante più amata che grida rabbiosa la stessa nausea, Me da asco. Quel figlio che, adulto ma ancora segnato dal trauma e l’abbandono e chiuso in una solo diversa solitudine, irride per lettera quel cascante Herr Von Aschenbach che lotta in difesa della barricate estetiche di Channel Thirteen e delle sue copule senili; e quell’amatissima amante che via fax esprime il suo furore contro il Signor Critico, arbiter elegantiarum di libri idee e pensieri. Perché Consuela è diversa; con lei David Kepesh scopre la paura e la gelosia; come lo ammonisce George, amico e poeta e tombeur des étudiantes, con lei David ha violato la legge della distanza estetica, ha abbandonato la posizione critica indipendente, ha accolto in sé sangue e vita e amore di questa bellissima cubana dai seni meravigliosi. Ma il sesso, se è risarcimento dalla morte e dalla sconfitta, è anche corpo, e in quanto tale vita e morte in sé. David, con Consuela, ha fatto entrare in sé così anche la sensazione della vecchiaia e della morte. Il Capodanno del 2000, l’Armageddon della stupidità e del niente, il mille e non più mille della vacua e ignara cecità, è simbolo cosmico della morte nel segno di una tragica rivelazione: lo strazio nuovo e inatteso di chi, prima del tempo, fissa nel terrore solitario del proprio letto la propria prossima morte, il disfacimento del corpo, il niente di tempo che rimane.
Resta il dubbio, a fine libro, di cosa abbia scelto questa volta Orfeo.
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