Friedrich von Spee, I processi contro le streghe (Cautio criminalis) [1631], Roma, Salerno editrice, 2004 (Faville 26)
Goethe asseriva che, pensando al Quichotte, doveva faticare per trovare qualcosa che i tedeschi avessero fatto meglio. Non era poi così difficile, Wolfgang. Ne avrei due, anzi. Una è la caccia alle streghe, che in Germania fu ancora più feroce che altrove in Europa, e i Tedeschi quando si mettono a fare certe cose le fanno a puntino. L’altra è il suo antidoto. Il mondo intellettuale tedesco ha saputo scrivere alcune delle pagine più nobili della cultura europea nel mezzo di feroci tragedie, come, dal 1509 alla morte, la strenua, e pericolosa, difesa dal rogo dei libri degli ebrei da parte del grande umanista Johann Reuchlin. Così nel 1631, quando «tutte le bocche si sono chiuse, tutte le penne si sono asciugate» si leva, tragicamente solitaria, la voce di Friedrich von Spee; primogenito di casata aristocratica, teologo e docente universitario, poeta, gesuita contro la volontà della famiglia; una sorta di fra’ Cristoforo tedesco, morto di peste a Treviri mentre accudisce i malati. Ma soprattutto confessore di streghe, in prima linea dunque nella lotta della civiltà e dell’umanità contro la perversa invasione demoniaca dilagante in Europa. Nella sua carica di confessore von Spee ha modo di analizzare in profondità, nella carne e nel terrore delle condannate, l’aberrazione di quel sistema inquisitorio a cui il suo stesso ordine aveva contribuito a dare strutturazione organizzativa e, specie con Martin Del Rio, base teologica. Eppure questo sacerdote-teologo affronta la tragedia della caccia alle streghe da una rigorosa – quasi implorata – prospettiva terrena, laica e razionale, pervasa da un interamente umano senso di impotenza di fronte alle distorsioni di una logica paranoica; lo stesso proemio dell’autore, con la dedica dell’opera a chi non la leggerà mai e il riconoscimento che i suoi non-lettori sono gli unici per i quali il libro abbia senso e scopo, è una metafora del senso e funzione della cultura: “Proprio coloro che non lo leggeranno sono invitati a leggerlo. Chi lo leggerà, può benissimo fare a meno di leggerlo”. È raro trovare una così disincantata e tragica consapevolezza della inerme inutilità della cultura, della civiltà, e della stessa eroica e pericolosa denunzia dell’aberrazione umana, come ben sapeva lo stesso von Spee pensando alla sorte del teologo Cornelius Loos, primo contestatore della caccia alle streghe, costretto sotto tortura ad abiurare, più volte incarcerato, e morto prima che Martin Del Rio, come si doleva pubblicamente quest’ultimo, fosse riuscito a portarlo sul rogo. Nondimeno, mentre un certo fondatore di biblioteche, tra un trattatello De cognitionibus quas habent daemones e una guida alla sua pinacoteca, indulgeva a opinioni piuttosto strane che mal fondate su cui un certo romanziere milanese glissa per non allungar troppo un episodio, von Spee svelleva alla radice, con duro e intransigente coraggio, la tanto comoda giustificazione degli errori del suo tempo che quello stesso scrittore d’altronde rilutta, sia detto a suo credito, a concedere al suo personaggio. È vero che nella Quaestio I von Spee riconosce l’esistenza della stregoneria, ma sembra piuttosto una, è il caso di dire, gesuitica concessione per coprirsi i fianchi prima dell’affondo (e d’altronde la truculenta definizione di stregoneria della Quaestio III viene circoscritta con l’ambiguamente asettica puntualizzazione «Sono parole di Del Rio»). Von Spee, infatti, già dalla Quaestio II riconduce la paranoia della stregoneria a ignoranza della complessità del mondo e superstizione, che spingono a ricondurre a magia la morte di un bambino o la grandine d’inverno, e a invidia e malvagità, che fanno della accuse di frequentazioni demoniache lo strumento per la propria meschinità. Soprattutto von Spee ripercorre l’incubo del labirinto in cui l’accusato di stregoneria precipita: in una sorta di schema binario machiavelliano della disperazione, ogni opzione porta al rogo: se la donna è di vita dissoluta, è una strega, e se onesta, è perché le streghe si nascondono abilmente; se è spaventata, è perché la sua coscienza l’accusa, se fiduciosa nella propria innocenza, è perché a ciò la spinge l’impudenza demoniaca; se non si discolpa, è prova provante, e se lo fa è il demonio a darle l’eloquenza; se sotto tortura volge lo sguardo intorno, è perché cerca il suo amante, il diavolo, e se tiene lo sguardo fisso, è perché lo ha trovato; se, accusata, scappa è perché è colpevole, e se resta, è perché il demonio la trattiene. Attraverso le pagine si dispiega progressivamente sulla storia del mondo un sudario di ferocia, irrazionalità e claustrofobica ossessione, e l’uomo pare sprofondare in un gorgo di inerme e tragica solitudine su cui a tratti non sembra affacciarsi nemmeno quel “dio tappabuchi” di cui parlava altro teologo tedesco in altro baratro dell’umanità. La parola che dice “io, no” è ciò che solo salva dal branco, parola di Isaia, di tutti noi cani muti che non sappiamo nemmeno abbaiare.
Questa scheda è per Hoel Pappenheimer, arso vivo per stregoneria nell’anno 1600 a Monaco di Baviera, all’età di dieci anni, dopo aver visto padre, madre, e due fratelli maggiori orrendamente e lungamente torturati e poi, quel che ne restava, bruciati sul rogo. La scheda è per lui, perché, ignorante e stupido che sono, non conosco i nomi di quei bambini ancora più piccoli che subirono la stessa sorte.
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