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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

giovedì 30 dicembre 2010

Carta e piombo

La materia de’ libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano eserciti armati.

Paolo Sarpi, Sopra l’officio dell’Inquisizione

lunedì 27 dicembre 2010

venerdì 24 dicembre 2010

Un uomo tabù

Avevo cominciato a preparare questo post con l’intenzione di sfogare un po’ di iroso scherno sulle ben note pubblicità con cui Alfonso Luigi Marra e sua figlia Caterina presentano La storia di Giovanni e Margherita. Il modo di formazione del pensiero, (1986, ripubblicato più volte, l’ultima nel 2009) e Manuela Arcuri Il labirinto femminile (2010). Piccole perle di grafica, recitazione, dizione, testualità, sceneggiatura, comunicazione. E un’occhiata a IBS non ha fatto che inasprire umori e ripugnanze. L’unico commento per il primo? «Un libro bellissimo. La storia di ognuno di noi per divulgare una scoperta. Una bellezza struggente. Un libro tabù di un uomo tabù. Il tutto sullo sfondo di una psicosi straordinariamente narrata. Cambiare è difficile perfino quando conviene.» Non occorre nemmeno una sinossi per capire chi sia l’autore del commento. La descrizione del secondo? «Un epistolario d’amore in sms imprevedibile, struggente, tra Luisa, giovane avvocatessa, e Paolo, il titolare del grande studio legale in cui lavora, che ha il doppio dei suoi anni ma è un genio interdetto a prendere in considerazione qualsiasi limite. 272 pagine di epistolario seguite da 78 di una straordinaria analisi per contribuire a liberare la coppia e la società dal dramma universale della concezione strategicoprevaricatoria dell'amore e delle relazioni umane in generale.» E figuratevi quando, per La storia, ho trovato, nella sua scheda personale su Macrolibrarsi, un’asserzione come «Una teoria che non ha bisogno di verifiche perché scritta in stile “autodimostrativo”, cioé dimostrata dalle parole stesse con le quali è svolta, ovvero assolutamente ovvia e formulata in maniera lucidissima». Arroganza delirante? Assolutamente no, come dimostra, questo altro stralcio: «Libri e documenti leggendo i quali, fra le tante sorprese, ci si accorge ad un certo punto che l’arte di cui le pagine sono pervase in una varietà di stili stupefacenti per bellezza e contenuti non è mai il suo obiettivo, ma solo lo strumento usato per condurre il lettore vittorioso attraverso le tematiche più complesse dello scibile senza quasi rendersene conto».

Qualche dubbio ho cominciato ad averlo leggendo le sue scuse all'Arcuri, che pochi probabilmente hanno letto per esteso. Un testo in cui è davvero difficile capire qualcosa (il silenzio che finalmente si è rotto, è quello dell’infame boicottaggio dopo il primo suo libro, o quello sacrale che, al parlamento europeo, lo accoglieva, lui solo, e non concesso nemmeno a Cristo sceso dalla croce, e che poi è lo stesso delle liriche albe venatorie sui monti della Sila?; e che accidenti è successo a Roma nell’anno zero?; chi ha paura di essere decifrata?). In realtà mi è stato difficile non provare un certo disagio, leggendo una frase come «Tu però stai tranquilla: dalla mia sella, quando – ormai in breve – tornerò dalla caccia nella ‘selva’ questa volta orrida della confusione e del malessere nei quali è precipitata la società, penderanno appese per i capelli le teste, non certo degli stupidi e dei pazzi, ma della stupidità e della pazzia che li tormentano». E ti passa la voglia di ridere quando leggi questa raccomandazione all’Arcuri: «Né ti consiglierei di cercare tu di affrontarli, convincerli o cambiarli perché è troppo difficile, oltre che pericoloso, visto che, se non è bastata a cambiarli la convenienza che avrebbero a diventare migliori, è segno ci vuole uno sforzo al quale ciascuno può contribuire, ma che solo io sono obbligato a fare perché – non è supponenza, ma un amaro dato – sono purtroppo l’unico uomo che abbia fin qui conosciuto ad avere una visione autenticamente politica e pubblica del suo essere».

Allora, concludo con una citazione da La storia di Giovanni e Margherita, estrapolata dal sito personale. E, con molta tristezza, mi affido a essa come riflessione sulla solitudine e sulla letteratura come palcoscenico del malessere.

L’incapacità di modulare l’egoismo, che non giova all’egoista, e che dunque si configura come un’impotenza di opere, è causata da un incidente dello sviluppo. Questo incidente dello sviluppo può essere capito e risolto se studiato alla luce delle regole del contesto. L’impotente di opere, a causa della sua impotenza a contribuire alla vita degli altri, viene negato, e quindi, in seguito alla negazione degli altri, cade in preda al malessere della pazzia. Se il malessere è di modesta entità la pazzia è parziale. Se il malessere è invece di grande entità la pazzia è più grave fino a poter essere totale. I concetti di egoismo e pazzia si sovrappongono totalmente, infatti: egoismo = desiderio di affermare se stessi senza le opere = malessere per la negazione degli altri = pazzia. Diventerà pazzo in sostanza colui che, a causa della sua impotenza di opere (egoismo), tenterà di imporre agli altri il suo esserci ed essere riconosciuto e, vedendo frustrati i suoi tentativi, continuerà a cercare di esercitare il suo vantato diritto attraverso comportamenti che, per l’aumentare del suo malessere, saranno sempre meno adatti a fargli ottenere quello che vuole. Fino a quando, a causa della negazione degli altri, che non cesserà fino a quando non cesserà il suo egoismo, adotterà forme comportamentali nelle quali è assente il contributo alla vita altrui, per cui, negato da tutti e più duramente, cadrà nella pazzia.

NB: tengo a precisare che nei testi di A.L. Marra, o comunque a lui pertinenti, non ho toccato una virgola.

giovedì 23 dicembre 2010

Bambini tedeschi dei tempi cupi

Alfred Andersch, Il padre di un assassino [1980], Parma, Guanda, 1990
Ernst Jünger, Tre strade per la scuola. Vendetta tardiva, [2003] Parma, Guanda, 2007, euro 10
Ödön von Horváth, Gioventù senza dio [1938], Milano, Bompiani, 2005, euro 7.50

 


Monaco di Baviera. Ginnasio Wittelsbach. 1928. Quando i ragazzi della Quarta B parlano del prof. Kandlbinder, docente di greco, un uomo magro, pallido e insignificante, commentano Quello vuol soltanto tenersi sempre fuori da tutto. Lezioni anodine, noiose, impeccabili, e molta cautela a non avere pupilli né bersagli. 


Germania, città indefinita, dieci anni dopo. Il professore di tedesco, che già vede addensarsi nubi nere per un’improvvida correzione al tema di uno dei suoi studenti, si trincera nella sua gelida e distante estraneità, rivolgendo nel pensiero il suo disprezzo verso i suoi studenti: non voglio subire una punizione disciplinare per i vostri begli occhi, e tanto meno perdere il pane ... Da oggi vi dirò che non esistono uomini all’infuori di voi, ve lo ripeterò fino alla nausea; e scoprirà che il suo soprannome tra gli studenti è “il Pesce”, perché la sua faccia è sempre così immobile, e non si sa mai cosa pensa e se pensa. 


Quando, al ginnasio Wittelsbach di Monaco di Baviera, al termine di un’umiliante interrogazione in greco condotto dal Rex, il Rektor del Ginnasio, Franz Kien, pessimo studente in qualsiasi disciplina, sempre spaesato, sempre astratto, rivendica la sua intenzione di essere un giorno scrittore, specificando che, di che genere, lo saprà da grande, lui, come autore più amato, lui, che pure ha divorato Enrico IV e Riccardo III, cita Karl May (il Salgari tedesco, viaggiatore che mai viaggiò), tra lo sprezzo e lo stupore del Rex, l’estimatore di Socrate che gode nel rivelare a tutta la classe che Kien è accolto a scuola gratuitamente per compassione. 


Hannover, ginnasio, qualche anno prima della prima guerra mondiale, durante la preparazione del voto in condotta per la pagella, Wolfran, studente rapito da absence, lievi forme di epilessia, balbuzie, straniamenti, si alza di fronte al prof. Corax, filologo, ultima nemesi del suo conflitto con la scuola,  e racconta i suoi colloqui notturni con Socrate e le sue domande su che cosa legga. Io gli rispondo: ‘Leggo Karl May’. E Socrate: “Eccellente. ... Un tempo fu la volta di Sigfrido, oggi tocca a Old Shatterhand”. E Wolfram raccoglie i libri, e lascia la classe, e la scuola, e il romanzo. 


Franz Kien viene espulso dal Ginnasio Wittelsbach e lascia il racconto addormentandosi su Attraverso il deserto di Karl May. 


Il professore di tedesco della città indefinita, sospeso dall’insegnamento, parte per insegnare in una missione in Africa: Portati via tutto, non dimenticare nulla! Non lasciare nulla dietro di te! Il negro va dai negri.


Tre brevissimi racconti, ambientati in scuole tedesche, negli anni in cui si deposita, nelle parole e nelle anime dei giovani, la malattia che porterà alla seconda Guerra mondiale. Tre racconti molto diversi; un romanzo breve di finzione, Gioventù senza dio, un giallo, omicidio-indagine-falsisospetti-rivelazione (anche se, come giallo, percola alquanto), esteso sull’arco di pochi giorni, costruito su una fortissima focalizzazione interna nell’anonimo professore di tedesco, i suoi pensieri, brevi amari frammenti, la sua osservazione di un mondo e un’adolescenza sempre più feroce nell’obbedienza; e due romanzi autobiografici: Tre strade per la scuola – nel cui Wolfram si riflette l’infanzia di Ernst Jünger – esteso negli anni necessari per cambiare tre scuole, e tre diverse strade per arrivarci, e lungo ognuna perdersi per esplorare quel mondo dentro di sé così diverso dalle ombre della scuola; e Il padre di un assassino, che copre giusto un’ora, l’ora di greco in cui Franz Kien sbaglia tutto il possibile nella grafia e traduzione in tedesco di È degno lodare la patria e finirà con l’essere espulso. 


Uno, Gioventù senza dio, il più vicino all’esplosione della ferocia, scritto quasi in presa diretta, ambientato nell’epoca del nazionalsocialismo ormai trionfante, un mondo senza nomi e identità, anonimo il professore, e mere iniziali gli allievi, e unico nome, Eva, la ladra sbandata, ai margini, eslege, rifugiata nei boschi, dalla sessualità libera; e unico pensiero imperante, la radio, la radio, la radio, e ogni slogan diventa verità nei temi e nell’orgogliosa gioiosa protervia dei suoi studenti. Gli altri due, quelli autobiografici, stesi a Novecento avanzato, entrambi all’ultimo anno della vita del rispettivo autore, ma, che affondano le radici più lontano: all’origine del secolo Tre strade per la scuola, a disegnare quell’humus in cui crebbe un intellettuale a cui furono a lungo rimproverate contiguità con il nazionalsocialismo; a metà tra gli altri due testi Il padre di un assassino, negli anni che preludono alla conquista nazista del potere, e vero tramite tra il prima e il dopo, perché il temutissimo Rex, “il padre dell’assassino”, non è altri che il padre di Himmler. 


Tutti e tre, però, hanno qualcosa in comune, la lettura. Ragazzi che si sottraggono al mondo, e ne cercano uno proprio, una propria libertà, nei libri: Franz Kien, che sarà scrittore, che scappa dal mondo “attraverso il deserto”; Wolfram, che divide la strada verso la terza scuola in tre tronconi, il primo per recitare Schiller, il secondo, l’ “eroico”, per ossere Old Shatterhand o Stanley o Robinson o un argonauta nella Colchide, prima del terzo, l’angoscioso, che porta a scuola, a quella lezione in cui finalmente Socrate condannerà il prof. Corax: dal punto di vista pedagogico lo giudica una nullità; e persino, tra quella “Gioventù senza dio” devastata dal conformismo e dall’orgoglio della cecità, lo studente B, in segreto, legge, legge, legge, e un giorno parla.

martedì 21 dicembre 2010

Cognomina sunt consequentia rerum. Certi, meglio evitarli.

Io dico che non ci si può più vivere! Et forse ch’e libri son destri et comodi da maneggiare, con quel legare et sciorre, affibbiargli et sfibbiargli o solamente nel dare una soffiata a un codice, quando tu l’apri o una sbattitura, ti empie il naso et la gola di polvere?
E me ne cadde una volta uno di questi libracci sul collo del piede, che mi fece fare un paio di tanie [litanie], intorno a’ Bartoli, Ruini et Baldi!

A.F. Doni, Humori [1550]

sabato 18 dicembre 2010

Sull'anagramma Unico Boss Virile

E torniamo alle nostre care donne. Elle videro in lui il portatore del verbo oltreché del nerbo, il portatore del modello formale del branco o specie, il vessillifero della spaghettifera patria co a' pummarola in coppa, il mastio unico, l'empito spermatoforico della stirpe gloriosa divenuto persona.


Pirgopolinice il glorioso non fu capace di sublimazione dell'amore cioè dell'impulso parallelo all'amore ma solo di priapesca per quanto funesta vantardigia: questa fu la sua atonia o astenia etica, e la sua colpa prima, a parità con l'atonia dell'intelletto.


C.E. Gadda, Eros e Priapo


(credits to LcGllrdn)

giovedì 16 dicembre 2010

Pensierino di questi giorni

Una delle maggiori fortune che possino avere gli uomini è avere occasione di potere mostrare che, a quelle cose che loro fanno per interesse proprio, siano stati mossi per causa di publico bene.


Francesco Guicciardini, Ricordi 142

domenica 12 dicembre 2010

Pensieri prima di entrare in aula

Dottrina delle virtù e fuga dei vizi [1585] di Orazio Rinaldi

Quattro cose allettano un dottore a legger bene: la moltitudine degli scolari, la grandezza del salario, l’acquisto che fa di maggior scienza, e ’l guadagno dell’onore.

Riuscirò ad accontentarmi della prima.

giovedì 9 dicembre 2010

L’uomo che si perse nei frattali del frattempo

Apostolos Doxiadis, Zio Petros e la congettura di Goldbach [1992], Milano, Bompiani, 2009, euro 7

– Ora, sette volte tre fa ventuno. – E come lo sa lei? – Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L’ho controllato innumerevoli volte. – Questo non significa che lo darà sempre, però. – Forse no. Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati sono sempre esatti. (Isaac Asimov, Nove volte sette)

Chi non ha avuto uno zio strambo. A volte la crepa destinata ad allargarsi per tutta la vita. Altre la buffa anomalia che rende meno asfissianti gli incontri di famiglia. Altre ancora, depositario di un segreto che rende meno greve l’inscappabile marchio identitario di un cognome. Nella famiglia Papachristos lo zio Petros è l’ESEMPIO DA EVITARE (tutto maiuscole, proto!), l’ipostasi del fallito, il disprezzato reietto: ma l’io narrante, nipote dell’ignobile e progenie di sana egocentrica arrogante collerica stirpe di imprenditori, deve gestire l’inconciliabile. 


Troppo diverso è lo zio Petros, cortese, gli occhi azzurri gentili, silenzioso e sobrio e solitario, da tutti gli altri parenti, da quella maledizione di indicibile colpa che grava su di lui. L’incipit – quando l’intera biblioteca dello zio è stata ormai affidata alla Società Matematica Ellenica, placando l’orrore che quel poco che si è stati si disperda sui muriccioli – circoscrive la vita di zio Petros tra due date, il 1742 e il 1931; una di quelle vite che non hanno sangue e corpo e date, ma destino e ricerca, oltre il proprio tempo, o finite prima che questo sia scaduto. Destino e ricerca e nevrosi. E dopo l’incipit sarà solo analessi: la scoperta, da parte del nipote adolescente, del segreto nascosto nelle ombre di una vita. 


La vita di un matematico, di un grande genio matematico, che ha sprecato tutto inseguendo l’irraggiungibile, l’ingresso nel pantheon della teoria dei numeri (“simili agli estri miei, ritroverò in esilio, Socrate e Galilei”) attraverso la dimostrazione della congettura di Goldbach. E sarà analessi nell’analessi; il racconto del fallito: la ferita profonda di un addio – la matematica come sublimazione del sesso, doktor Freud! –, la sete di conquistare la forma occulta dell’essere, la compensazione, il bisogno di una gloria che sottragga al disordine dell’oblio, di una donna e della storia, e all’oscurità che sommerge. 


Il ventesimo secolo si apre con i “Problemi di Hilbert”: al Secondo Congresso Internazionale di Matematica risuona la fiducia nella logica della matematica, nella sua piena assiomatizzazione. Wir müssen wissen, wir werden wissen! Nella linea retta e progressiva della matematica formale e del logicismo, nel solco dei Principia mathematica di Russell e Whitehead, si brucia la vita di zio Petros. Una solitudine gremita di sogni, che nulla hanno del Mago dei numeri di Enzesberger, numeri antropizzati, ermafroditi, ombre di simboli dai messaggi assurdi e incomprensibili, figure con gli anni sempre più impaurite e dolorose, fino all’ultimo sogno, l’incubo del 2100, numero immenso che ben più del doppiar de li scacchi si immilla, nella forma di due belle ragazze identiche, con le lentiggini e le iridi scure, e le loro parole che hanno l’odio e la crudeltà di un’amante respinta. 


La giovinezza di zio Petros si consuma inchiodata alla croce ansiosa del metodo in quegli stessi anni feroci della matematica, tra quei geni saturnini e sofferti, a cui Doxiadis (dottore di ricerca in matematica alla University of Columbia) ci guida nel suo recente graphic novel, Logicomix, con la voce narrante proprio di Bertrand Russell. L’ossessione febbrile per quelle somme di due numeri primi che danno un numero pari maggiore di due. 


Fino al 1931. Il crollo di un mondo. E tributo al dolore e alla tragedia di chi solleva il velo di Maya, di chi non ha saputo stare al quia, falena fragile della ricerca, è Alan Turing l’araldo della sconfitta, colui che porta la notizia di un articolo di un giovane matematico viennese comparso nel numero 38 di Monatshefte für Mathematik und Physik. Quel teorema di incompletezza di Gödel (“non meno inquietante della rivelazione di grandezze incommensurabili fatta da Ippaso”, C.B. Boyer) che sconvolge la logica e la vita di zio Petros: il destino è ormai solo un labirinto, e nemmeno più si sa se un’uscita esista. E forse si aspetta invano alle Termopili, Efialte, atteso, non arriverà a tradire perché i Persiani non esistono, mentre gli scudi si ossidano e le lame si ottundono. 


Resta solo il vuoto del naufragio. E incubi sempre più desolati. Fino alla rinuncia. Forse. Non è solo la matematica ad avere un nucleo indecidibile, indistricabile; la storia di un uomo ha una soglia, un passo prima della morte, oltre la quale non si può seguirlo. Sicché Paolo Uccello capì di avere compiuto il miracolo. Ma Donatello non aveva visto altro che un garbuglio di linee (Marcel Schwob, Vite immaginarie).

sabato 4 dicembre 2010

Sangue e rape

Laonde dubbio veruno non è che questo tanto sapere, et cotanta saviezza non altra cosa sia, che una tribulatione, una inquietudine, un rompimento di capo, una perditione del corpo, et de l’anima, et sia quasi una horribile peste de gli infelici mortali. Per lo contrario adunque l’ignoranza è cosa sana, et è veramente l’ignoranza un perpetuo riposo, et dolce quiete de la mente, et non solo è l’ignoranza la vera conservatione del corpo, et de l’animo, ma ancho una gran felicitade de gli huomini, mentre in questo mondo vivono.

Giulio Landi, Oratione in lode dell’ignoranza¸ in Vinegia, [Gualtiero Scoto], 1551, c. 58r

giovedì 2 dicembre 2010

Acque di tenebra

J.G. Ballard, Il mondo sommerso [Deserto d’acqua] [1962], Milano, Feltrinelli, 2005, euro 7.50


l mattino Robert Kerans ammira dalla sua suite al Ritz la laguna che si allarga nel semicerchio della foresta tropicale. Il Ritz di Londra, però. Ballard crea fin dalla prima pagina in pochissimi cenni indiretti un mondo tanto apocalittico quanto fluidamente naturale, immediatamente riconoscibile, evidente. Il calore insopportabile già alle otto del mattino, la foresta di gimnosperme, l’umidità soffocante, le sempre più aggressive iguane, le felci, enormi zanzare anofele e ragni acquatici, le tempeste termiche. Kerans appartiene a un ridottissimo gruppo di militari e scienziati – mentre la popolazione mondiale, quei cinque milioni che ne restano, si è ritirata in Groenlandia e ai Poli – incaricati di mappare fauna, flora, rilievi del territorio e delle coste. Due anni di lavoro. Una missione inutile. Un lavoro inutile. La stanchezza dell’inutile. La resa della civiltà urbana alle acque crescenti,  Venezie riluttanti ad accettare l’inevitabile matrimonio col mare, ma infine sopraffatte dalla caduta delle ultime dighe, come città medievali espugnate da quei naturali “paesaggi della paura” che avevano saputo dominare nel Medioevo. Solo al capitolo secondo, L’avvento delle iguane, abbiamo – secondo i modelli della SF – la spiegazione scientifica dell’apocalisse, quelle violente tempeste solari di sessanta o settanta anni prima che avevano allargato le fasce di Van Allen surriscaldando progressivamente la terra e sciogliendo ghiacci e ghiacciai: da qui un innalzamento delle acque accentuato dalla sedimentazione dei depositi alluvionali, mentre in una fascia equatoriale in espansione, dove la temperatura è già arrivata a ottanta gradi, si scatenano tornadi sempre più volenti. E mentre l’Europa si trasforma in un succedersi di lagune, la storia del mondo si riavvolge fino al Triassico, al suo clima, alla sua flora, alla sua fauna: rettili e sauri tornano a essere la specie dominante. Però già nel primo capitolo sono affiorati gli indizi della vera cifra dominante del romanzo, ben al di fuori del profilo di genere, quel rallentamento del metabolismo e quel regresso biologico delle forme prossime a una metamorfosi che Kerans, biologo, presagisce in sé. Gli uomini della missione militare sono colpiti da déjà-vu e da sogni, tutti uguali, della giungla: riflessi rimasti recessivi per migliaia di generazioni riaffiorano, ri-innescati dal nuovo ambiente. I ricordi più antichi del mondo, quelle paludi e quelle lagune, sedimentate nei geni e nei cromosomi. Un flusso sanguigno immissario dell’immenso oceano della memoria collettiva, sempre più profonda quanto più la chimica naturale spinge l’uomo a risalire verso la base del sistema nervoso centrale, nel tempo neuronico: è il trionfo dell’inconscio collettivo junghiano, l’unus mundus, ricordi organici vecchi di milioni di anni impressi nel citoplasma, la retrocognizione di un’epoca dominata dai rettili che si ripercuote in echi lontani di pericoli e di terrori, un Es che è pantheon stracolmo di fobie e di ossessioni tutelari. Immagini oniriche e surrealiste (e la pittura surrealista è iper-presente in tutta l’opera di J.C.B., basti La mostra della Atrocità) percorrono il romanzo e la psicologia dei protagonisti: dal quadro di Max Ernst – appeso negli appartamenti di Beatrice Dahl, la ricca fidanzata di Kerans – una delle sue fantasmagoriche giungle autodivoranti che urlava silenziosamente a se stessa, con il sole arcaico a illuminare i recessi dell’inconscio; ai fantasmi di Paul Delvaux spersi nelle terre crepuscolari; alle immagini alla Dalì di meridiane liquefatte, segno del tempo cronologico ormai dissoltosi in un tempo biologico e ancestrale. Quel tempo umano ormai inesistente: e mentre il colonnello Riggs, insiste freneticamente a far ripartire gli orologi dei campanili di ogni città attraversata (quegli orologi a ruote dentate la cui introduzione nel XIII sec. si accompagna alla nascita della cultura urbana, come orologio che ne chiami / che l’una parte e l’altra tira e urge / tin tin sonando con sì dolce nota), Kerans si lascia attrarre da un orologio rotto. Come fissa magnetizzato nella sua bussola il Sud. Quella direzione verso là dove la giungla è più profonda, la profondità dell’inconscio più abissale. E se Apocalisse e Diluvio sono archetipi junghiani, lo è anche la Creazione: quel folle Eden in cui Kerans e Beatrice decidono di restare, quando la missione riparte, Adamo ed Eva di un mondo rinato nel brodo primordiale, per tornare nel paradiso amniotico. E esplicitamente come un utero è il planetario in cui si immerge Kerans, sulla cui volta incrostazioni e riflessi disegnano lo zodiaco che percorreva il cielo all’origine della precessione degli equinozi; e se nel planetario Kerans rischia di annegare, per risorgere come Mitra, in sogno il giovane biologo si immerge, come in un battesimo, in un’acqua brulicante di serpenti. Acqua desolata. Come Phlebas il fenicio, morto per acqua, dimentico dei gabbiani, che passed the stages of his age and youth. “I miei piedi sono a Moorgate, e il mio cuore / sotto i miei piedi”. Perché allora Il mondo sommerso è come una nuova Bibbia, con continui rimandi a immagini del giorno del giudizio, ma densa anche di echi letterari, di acque, di orrore, di redenzione. E se Kerans in incipit di libro guarda la laguna londinese, Marlow in apertura guarda il Tamigi aperto davanti a sé, e ricorda quando anche Londra era “uno dei luoghi di tenebra della terra”. E Strangman, saccheggiatore di tesori sommersi irrotto nella laguna, con un equipaggio nero che lo adora come divinità, e i suoi rituali selvaggi, incarnazione del male preistorico con i suoi duemila alligatori bianchi, è un Kurtz devastatore e sacrilego nel prosciugamento di Londra, trasformata in città infernale, fogna pestilenziale. Kerans, dopo aver ridato Londra alle acque, dopo essersi fatto Nettuno, guardiano del mare, dopo aver abbandonato anche l’ombra equorea della città, avanzerà come Ulisse verso Sud, attaccato dagli alligatori e dai pipistrelli giganti, Adamo ormai solitario verso il suo paradiso. Illuminazione e religiosa speranza ancestrale in un prima-del-tempo, sigillate nel messaggio d’addio di Kerans (“Tutto va bene”) inciso per nessuno sulla pietra, citazione dal finale del Little Gidding dei Quattro quartetti.
We shall not cease from exploration / And the end of all our exploring / Will be to arrive where we started / And know the place for the first time. / Through the unknown, unremembered gate / When the last of earth left to discover / Is that which was the beginning.

domenica 28 novembre 2010

Sicché, questa è la vita?

La Minimun fax  vanta nella collana Filigrana alcuni titoli che sono florilegi di osservazioni, annotazioni e consigli per la scrittura da parte di grandi opere (tra gli altri Raymond Carver, Flannery O’Connor, Henry Miller, Jack London). Cito un consiglio tratto dall’antologia di Anton Čechov, Senza trama e senza finale. 99 consigli di scrittura, rivolto al povero Aleksandr Čechov,  fratello massacrato in ogni suo lavoro; e, sempre al fratello, un’annotazione sul rapporto tra vivere e scrivere. E i due aforismi sono più legati di quanto paia.

È un errore voler mettere in scena un gran numero di personaggi. Centro di gravità debbono esser due soli: lui e lei. (1886)

Non ho voglia di scrivere, e poi è difficile unir la voglia di vivere con la voglia di scrivere. (1894)

venerdì 26 novembre 2010

Nati sotto il segno di Quetzalcoatl

David B. [Pierre-François Beauchard], Il Grande Male [1997-2003], Bologna – Roma – Parigi, Coconino Press, 2010, euro 22

Esce finalmente in unico volume (dopo alcune edizioni in varia forma parziali nel 1999 e 2003- 2004) uno dei più grandi capolavori della graphic novel. Un autore che è una negazione di se stesso, fin dal nome; un cognome eliso all’iniziale; un nome abbandonato per un altro, e proprio qui ne troviamo la spiegazione. Una vita che è continua morte e nascita, volti che si alternano per l’eternità. La meravigliosa copertina, cinque figure, una famiglia, i cui corpi sono impastati in un’unica macchia nera da cui affiorano i visi. Un campo giallo incorniciato da un corpo, spezzato e contorto, chiuso al vertice basso sinistro da un viso sgradevolmente adolescenziale, peluria e labbra rigonfie. Occhi spersi e dolorosi aperti in una testa sorretta da una mano in primo piano che protegge il fuori dal dentro e il dentro dal fuori. Nella pagina di prologo, 1994, in un bagno normale e quotidiano, entra una figura deforme e ripugnante. Le parole faticose Sono io. Comincia così il viaggio nel ricordo del dolore, una famiglia aggrumata nel Grande Male di Jean-Christophe, quando ancora era solo Tito. Quando ancora Pierre-François ignora che in suo fratello si cela e cresce la “crisi tonico-clonico”. In pagine dominate dal nero, sfondi e ombre e corpi stessi neri, fuoriescono, quasi ne fossero minacciate, bianche masse plastiche: contorni netti e recisi, senza toni intermedi; un disegno quasi violento nella sua apparente ingenuità, un universo scisso, due emisferi in lotta cosmica l’uno con l’altro. Un lettering corsivo e nervoso guida nella tragedia della famiglia Beauchard; due storie parallele, quelle di due fratelli, Tito, nel suo rifugiarsi nella malattia per negarsi e non esserci, una vita che si contrae lentamente, e Fafou, la sua lotta per essere se stesso, per scoprire chi è, per difendersi dal male che li fagocita. Due fratelli costretti a crescere odiandosi, nel dolore ognuno della propria solitaria disperazione, per ciò che è negato, per ciò che è tolto. Ma Fafou disegna; i suoi fogli si addensano di battaglie feroci, e la storia si riversa nella sua infanzia, i mongoli, gli aztechi, i beduini, i samurai, gli opliti. Immagini del caos e del disordine che per Fafou è ciò che, incomprensibile, si annida vorace nel cervello del fratello; quella ferocia della storia che per il bambino si condensa nelle crisi e nello straniamento di Tito, e che cerca di ricostruire nelle cronache famigliari d’Algeria, Indocina, Grande Guerre. E le forme sulla pagina sono metamorfiche, campi di fuga di un bambino che fissa sul biancore della carta un mondo sconvolto, per dargli distanza estetica, mappa emotiva: così d’improvviso abbiamo stile dei thangka, tz’ib’al, Lydos ed Exekias, arte precolombiana, ceramica a figure nere, pittura cinese e giapponese. E mentre la famiglia passa da medici pazzi a santoni orientali, da cerretani a psicopatici, dal gomasio a terapie sperimentali, in un calvario di speranze, delusioni, spossatezza e isolamento, trasfigurati dalla giocosa ingenuità di Fafou bambino e poi dalla ora rabbiosa ora dolorosa adolescenza di Pierre-François e poi ancora – ultimata la metamorfosi – di David B., le pagine, dense, gremite, oniriche e allucinate, trascolorano da Grosz e Dix a Kirby, dal surrealismo alla tribale africana, dalla Biblia pauperum a Picasso. Il cosmo del dolore assume la forma grafica delle pagine alchemiche di Raimond Lull, di Cornelio Agrippa, del Mutus Liber, in cui sistemi misteriosofici e universali degli arcani maggiori disegnano il labirinto in cui si addentra la ricerca di un senso. E tutto è simbolo: mentre gli uomini volano e i sogni affiorano, corpi teratomorfi e incubi antropomorfi si mescolano. Tra Jung e il ricordo del nonno, silenzioso Ibis incravattato sempre presente nel momento del dolore, continua la lotta di Fafou e la resa di Tito contro il male, figurato in quel serpente Quetzalcoatl, vomitato dalle crisi di Tito, le cui spire percorrono e legano e avviluppano le pagine del libro e degli anni che passano. Fino all’ultima pagina, che improvvisa si allarga e respira nella conciliazione, nell’accettazione, nella rinunzia. Un capolavoro.

venerdì 19 novembre 2010

L’aula vuota del professor Bartleby

G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini [2001], Torino, Einaudi, 2010, euro 13

Il duca, quando la sera scende, può solo constatare “Quando la vita suona l’ora della raccolta, si sentono, senza aver fatto troppo di male, mille piccoli disgusti di se stesso, il cui totale non fa un rimorso pieno ma un malessere oscuro. E il mantello del duca trascina sicuro, scalando degli onori i gradini rampanti, un crepitio di illusioni secche e di rimpianti”. A volte può accadere anche percorrendo i chiostri universitari. Eppure, Preferirei di no racconta di qualcuno che seppe risparmiarsi quel malessere oscuro. L’8 ottobre 1931 oltre milleduecento professori universitari sono chiamati a giurare fedeltà al re e al regime fascista, impegnandosi a esercitare “l’ufficio di insegnante” per formare cittadini “devoti alla patria e al Regime Fascista”. Solo dodici rifiutano.
Un rifiuto minoritario; meno della percentuale dei malati rispetto ai sani, dei deficienti rispetto agli intelligenti, dei disonesti rispetto ai virtuosi, sarà lo scherno fascista. Ma un rifiuto che arriva al termine di un lento stillicidio di minacce, repressioni, violenze, norme, episodi, provvedimenti, che hanno già soffocato e stremato il mondo accademico; nei primi due capitoli Boatti ripercorre questo lento dissanguarsi, di energie e di anima, tra ritirate e resistenze: gli attacchi nel 1923-24 a Gaetano Salvemini, costretto l’anno successivo, dopo aver sperimentato anche il carcere, all’esilio; il decreto legge del dicembre ’25 che prevede il licenziamento per quei professori che fossero “in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo” (una legge che provocò l’abbandono di Silvio Trentin e F.S. Nitti, ma spazzò via professori di ogni ordine e grado, come Umberto Cosmo, e piace ricordare che sarà un suo allievo, Leone Ginzburg, l’ultimo a rifiutare il giuramento fascista, quando, arrivato in cattedra nel 1934, notificò sobriamente al suo Preside di non essere interessato alla carriera accademica); e così un primo giuramento (ancora solo al re) imposto ai professori nel 1924; lo scontro tra Manifesto fascista e antifascista del 1925; gli attacchi in Senato a Croce, “imboscato della storia”; fino all’intervento dei carabinieri che sospendono il congresso della Società Filosofica Italiana nel 1926. Una marea che culminerà con l’espulsione degli ebrei dall’università nel 1938 (97 di ruolo, 133 aiuti, 160 liberi docenti).
Mentre un mondo crolla, e l’afa livida e cupa preannuncia la tempesta, dolorosamente solitari, non rispondono all’appello Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco Ruffini, Edoardo Ruffini Avondo, Lionello Venturi, Vito Volterra. Lungo le pagine grandi e piccole della storia e della cultura italiana, dal terremoto di Messina (in cui Salvemini perse moglie e cinque figli) alla nascita del “Corrierino dei piccoli”, dall’infamia della Pascendi dominici gregis agli accoltellamenti tra reduci garibaldini in Romagna, dall’arroganza dei vincenti del maggio radioso alle lotte, di pensiero e di meschinità, nei Senati accademici e nelle anticamere ministeriali, si disegna un denso e affascinante affresco italiano in cui le storie dei dodici si propongono come romanzi ricchi di echi, incontri e battaglie. Attraverso le loro lettere di rifiuto al ministro Giuliano, le loro memorie, e quelle di grandi protagonisti della vita culturale e civile del Novecento italiano (Galante Garrone, Bobbio, N. Ginzburg, V. Foa, tra gli altri), Boatti segue la parabola di questi uomini che si trovarono a fare i conti con la propria storia personale e il senso di una vita scelta molti anni prima. Laici e razionalisti intellettuali ebrei, come Errera, Volterra e Levi Della Vida, o ascetici filosofi cristiani, come Martinetti, panteista e schopenaueriano. Cattolici osservanti e conservatori come De Sanctis, che rifiuta le scappatoie gesuitiche della “riserva interiore” proposta da un tale, omonimo a una piazza davanti a un certo ateneo milanese; oppure scomunicati e sacerdoti sospesi a divinis, come Buonaiuti, schiacciato dalla morsa della repressione fascista e della persecuzione cattolica antimodernista, tanto che persino l’Italia repubblican-democristiana gli negherà il ritorno in cattedra. Uomini per cui il rifiuto era consequenziale a una storia personale e persino famigliare, come il libero pensatore romagnolo Nigrisoli, o protagonisti inattesi, come Venturi, che aveva invece firmato il manifesto degli intellettuali fascisti. Membri della grande aristocrazia intellettuale italiana o montanari e figli di pizzicagnoli. Matematici, giuristi, semitisti, chimici, medici, storici dell’arte, filosofi, storici dell’antichità o del cristianesimo.
Certo, molti erano al termine di una carriera ricca di prestigio, pubblicazioni e soddisfazioni, ma vi fu anche chi come Edoardo Avondo Ruffini aveva solo trent’anni, e ne ebbe la carriera spezzata; certo, molti erano rassicurati dal loro benessere economico, ma altri, come Ernesto Buonaiuti che dovette vendere pezzo a pezzo la sua biblioteca, patirono maggiori o minori disagi economici; certo, alcuni erano intoccabili per la loro risonanza internazionale, ma altri patirono in seguito il confino, il carcere, o preferirono per sicurezza l’esilio. In tutti, però, insieme alla proclamazione della propria dignità, al rifiuto di subire il sigillo ideologico fascista, alla rivendicazione dell’autonomia della propria coscienza e della ricerca scientifica, c’è la drammatica sofferenza per l’abbandono della cattedra e la rinunzia a quell’insegnamento che dava senso, scopo e orizzonte a tutta una vita. Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente.

mercoledì 17 novembre 2010

Non mangiate i frontespizi

Di Saba, si conservano dal liceo tre cose. Il suo stupore alla scoperta che la moglie s’era offesa per essersi presa versoliberamente della vacca e della cagna. Che aveva scritto sonetti sul calcio (Come Leopardi! No, caro: quello era un altro pallone, ma in effetti per saperlo bisogna essere nati un po’ balzani, oppure a Treia e dintorni, che poi non è così diverso). E che a Trieste aveva una libreria antiquaria, la Mayländer. E quindi chi meglio di lui per scrivere Consigli ai bibliofili? E davvero è per bibliofili questo libricino, edizione numerata per i tipi Henry Beyle, su carta Zerkall-Bütten, che segue a R. Carrieri, Il sabato del bibliofilo e G. Papini, Il libraio inverosimile. Libello esile, nella materia e nel contenuto. Ma che ha tutta la lieve piacevolezza di una tranquilla chiacchierata con un vecchio amico in una sala foderata di libri. E l’aneddoto finale – con l’episodio di colui che prima di vendere i libri appena ereditati strappa i frontespizi firmati dal parente perché non si sappia in giro che in famiglia si vendono i libri, che “tanto, questi valgono per il contenuto e non per il frontespizio” – vale davvero il libretto.

venerdì 12 novembre 2010

Amalek, Amalek!

B. Vian, Sputerò sulle vostre tombe [1946], Milano, Marcos y  Marcos, 1998, euro 13

Non è facile scrivere opere sgradevoli senza essere ridicoli. Non è facile scrivere libri da bancarella di stazione ferroviaria che non siano abbandonati sul sedile al termine del viaggio. Sputerò sulle vostre tombe, ad esempio. Vernon Sullivan, come ricostruisce il traduttore Boris Vian nella prefazione del traduttore, negro-bianco americano, bianco nell’apparenza e per la burocrazia, e negro nella memoria e nella rabbia, affida all’editore francese il suo manoscritto rifiutato dal sistema editoriale USA. Rifiutato per pornografia, se non per pedofilia, per violenza, per immoralità. Ma più perché il protagonista, ed io narrante, è un negro-bianco lui stesso, e la storia è un esorcismo, allo stesso modo in cui gli uomini del neolitico dipingevano bisonti colpiti dalle frecce per attirare la loro preda nella trappola; allora è ben più che un esorcismo, è un vaticinio, un giuramento di odio fino allo sterminio. Vendetta, rivalsa, rabbia, del negro sul bianco, insinuandosi nel mondo bianco, scopando ragazze bianche, ammazzando ragazze bianche dopo essersi rivelato per negro. Solo sei anni dopo, Frantz Fanon, psichiatra francese-martinicano, nel bellissimo Pelle nere. Maschere bianche indagherà l’alienazione del nero che cerca di essere bianco. La negazione di sé, il complesso di inferiorità. Il suo desiderio della donna bianca come compensazione. Ma tutto, in Sputerò sulle vostre tombe è ancora più ambiguo, nell’urlo di Lee Anderson, il negro-bianco, che vuole gridare chi è davvero; con quell’incipit fulminante Nessuno mi conosceva a Buckton, che non è fuga e nascondimento, ma come si scopre poco a poco, occultamento, preparazione necessaria alla vendetta di sangue e sesso. Per placare l’ombra di quel ragazzo due metri sottoterra, la cui identità affiora lentamente, per sottrarsi a quella paura e a quel tremore e a quella disperazione inoculate scientemente per secoli, come ricorderà Aimé Césaire, uno dei padri della négritude. Già, qui è tutto più complicato, perché Vernon Sullivan non esiste. E questo romanzo breve-racconto lungo esce dalla pena di quel mostro poliedrico di Boris Vian. Ne esce per soldi, ne esce per sfida, gioco, scommessa. Un romanzo scritto ricorrendo a tutto l’armamentario di un genere che dilagava in Europa con le cicche e le Marlboro. Un po’ come quel certo personaggio della nostra storia letteraria che un giorno abbandona tutto, e si mette a scrivere romanzi commerciali americani, tanto bene, da saper creare l’effetto di frettolose e impacciate traduzioni dall’inglese. E sì che un bell’indizio, c’era nella prefazione, quando Vian intravede nel romanzo l’influsso di James M. Cain, padre dell’hard boiled, e di James Hadley Chase. Che però era inglese, e le sue ambientazioni americane le otteneva con le guide geografiche e vocabolari e lessici di slang. E allora questo romanzaccio a effetto, operazione commerciale delle più bieche, non lo si abbandona sul treno. Perché, nel gioco di proiezioni e assunzioni di identità, caso limite della sequenza autore - autore fittizio - autore implicito - narratore, è una denuncia dura e feroce di ogni razzismo e ogni società, con lo scarto inatteso e finale tra narratore in prima e in terza persona, dalla pianificazione lucida tracimata in un’ordalia spasmodica di sangue, alle asettiche e descrittive pagine conclusive, fino al brevissimo capitolo epigrafico dove si raccolgono indignazione e irridente fedeltà alla propria rabbia. Perché non tutti, quando il giorno s’impaluda in una moria schiumosa, restano sempre in attesa del passaggio delle undici ragazzine cieche dell’orfanatrofio di Giulio l’Apostolico.

mercoledì 10 novembre 2010

Venticinque piccoli lettori

Sotto il segno della Scuola Holden, all’interno del progetto “Save the Story”, mi è arrivata tra le mani La storia de I Promessi Sposi, raccontata da Umberto Eco, a cui ha collaborato un certo Alessandro Manzoni. Posto che ci credo pochino che ci sia davvero la penna dell’Umberto, la lettura è davvero piacevole, a tratti molto divertente. Ho comunque un po’ l’impressione che sia piuttosto un libro per adulti che vogliono tornare bambini, che davvero per giovani lettori. E anche le illustrazioni di Marco Lorenzetti, marchigiano di terra di illustratori, lo suggeriscono. Certo che c’è un piglio molto personale, nell’Epilogo sul sugo della storia di quel vecchio signore dalla “faccia buona di un cavallo triste”, e così nel capitolo finale Da dove viene questa storia, brioso racconto della storia editoriale e della fortuna dell’opera. Mi resta sempre un dubbio, se questa “scialuppa che porta in salvo, nel nostro millennio, qualcosa che sta naufragando nel passato” sia davvero quanto serve. Da bambino mi regalarono un Chisciotte ad usum tructae. Forse, se non avessi creduto allora che mi sarebbe bastato, avrei scoperto prima com’è tutta la vita e il suo travaglio nel malinconico testamento di Alonso Quijano il Buono. Ciò detto, preferivo Eco quando nella sua My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni, ci insegnava a tenerci lontani dalla falsa albagia scientifica e dalla superfetazione ermeneutica di chi vuole leggere nel romanzo la storia di un matrimonio osteggiato, per gustare invece, con primitiva ingenuità, il legame tra sintassi e struttura dell’universo secondo lo Zohar, piuttosto che le evidenti tracce antropologiche nel solco sapientemente indicatoci da Kerenyi e Bachofen.

lunedì 8 novembre 2010

Marziani e Archeologia fascista

Festival di Sanremo. Gianni Morandi «Non facciamo e non vogliamo fare politica». Gianmarco Mazzi: «Giovinezza è passata alla storia come inno del ventennio ma nacque come canzone della “goliardia” toscana nei primi del '900».

Nel 121° anno matematico, al IV Congresso intergalattico di Studi Archeologici, il Ch.mo prof. Anouk Ooma (Centro Universitario Archeologico della Terra del Principe Giuseppe), tiene una comunicazione destinata a sconvolgere la disciplina dell’Archeologia terrestre. L’illustre relatore confuta in particolare la strampalata tesi del prof. Ixptt Adonis che non ci sia arrivata alcuna testimonianza della cultura italiana non perché, come ritiene il prof. Aakon-Sturg, il bacino mediterraneo fu lo scenario più devastato dalla guerra atomica o perché, secondo l’ipotesi del prof. Ugum-Noa Noa elaborata sulla base dei documenti degli incontri internazionali, in realtà non esistette mai un’entità italiana, ma perché una disastrosa situazione economica della cultura italiana, tra crolli e tarme, avrebbe impedito anche solo di pensare a tramandare il sapere alle generazioni future. Teoria davvero a-scientifica e vagamente razzista da parte di uno studioso della stella nana Altair quale il Ixptt Adonis, che immaginerebbe i terrestri come un popolo che si bea mangiando e suonando l’arpa mentre tutto attorno brucia.
Il Ch.mo prof. Anouk Ooma apporta invece la prova definitiva a smentita: il ritrovamento, in collaborazione con il Ch.mo prof. Baaka B.B. Baaka A.S.P.Z. (Reale Istituto di Letteratura di Isola degli Orsi), di alcuni frammenti cartacei di un codex ampiamente mutilo titolato Ritmi e Canzoni d’oggi o, come l’illustre relatore si pregia di definirlo, Quaternulus Pompeianus. Restano purtroppo poco più che alcuni incipit di ciò che è riconoscibile come una raccolta di primitivi testi poetici delle Origini, come ricostruibile sulla base della voce Canzone o Canzona dell’Encyclopaedia Britannica o dell’ Essai sur le rythme del Matila Ghyka.
Grazie a questo insperato ritrovamento, il Ch.mo prof. Anouk Ooma ci insegna a riconoscere le voci del passato che ancora ci parlano con la loro sorgiva forza primitiva. Vola Colomba bianca vola, inno in lode dello spirito santo. È morto un bischero, traduzione incompleta dallo spagnolo di una poesia del poeta Federico Garcia o Federico Lorca, del XIX o XX secolo. Lo sai che i papaveri son alti alti alti, in cui affiorano i fremiti di angoscia e l’umana fragilità di fronte al mistero della natura.
E infine Giovinezza giovinezza primavera di bellezza, canto di giovinette, al cui suono la fantasia vola a fanciulle avvolte in bianchi veli, danzanti nel plenilunio di qualche magico pervigilium.

L’impressione è che il Diario minimo di Eco avesse sbagliato di circa 121 anni matematici. Per tutto il resto, direi che purtroppo già ci siamo.

domenica 7 novembre 2010

Verrà la morte e avrà i tuoi denti

Evgenij Zamjatin, Noi [1924], Milano, Lupetti, 2009, euro 14


Sono passati mille anni. E l’umanità è felice. 


Sembrano solo coincidenze: nel 1921 esce il fondamentale Storia dell’utopia di Lewis Mumford, in cui sulle società ideali già si addensa un fosco monolitismo; nel 1920 Josef Čapek scrive R.U.R., precursore della vita meccanica, con i suoi robot/androidi; nel 1918 Esenin canta la sua Inonia, utopia edenica contadina il cui collasso lo porterà alla disperazione e forse oltre; e solo un anno prima Vladimir Kirillov, nel suo poema Noi, intona “Noi, infinite, minacciose legioni del Lavoro. / Abbiamo vinto distese di mari, d’oceani, di terre, / della luce di soli artificiali abbiamo illuminato le città”. 


Negli stessi anni, tra il 1919 e il 1921, anche Zamjatin dà lo stesso titolo, Noi, al suo romanzo fantascientifico (marchiato dalla cultura ufficiale sovietica come “un miserabile libello sul futuro del socialismo” e pubblicato in patria solo nel 1988). Nello Stato Unico, il grammo dell’io si annulla nella tonnellata del Noi; felicità è dimenticare di essere un grammo e sentirsi la milionesima parte della tonnellata. Felicità e moralità meccaniche e matematiche: la vita è scandita dalla Tavola delle Ore, dalla funzionalizzazione al benessere dello Stato, dalla logica tayloristica e molecolare, dai riti collettivi. 


In un universo asettico e indefinito (macroisola? stato universale?), in cui la natura è asservita e annichilita, e tutto è solo vetro e acciaio, visibilità e controllo, un panopticon totale che si espande alle pareti trasparenti della case; una vita sessuale centralizzata burocraticamente e contrattualizzata tra pari, scientifica, stabilita nelle cadenze, medicalmente e igienicamente; la letteratura che ha saputo andare oltre anche il grande capolavoro delle epoche antiche, l’Orario delle Ferrovie, per essere finalmente utile, per contribuire alla felicità e alla compattezza dello stato, con la tragedia Colui che arrivò tardi al lavoro, con i Fiori delle condanne giudiziarie, e su tutto con le Odi quotidiane al benefattore, Colui che è il Numero dei Numeri, l’ipostasi dello Stato, acclamato nel Giorno dell’Unanimità (e in fondo J. Benda comincia il suo Tradimento dei chierici nel 1924). 


Certo gli archetipi della distopia si rintracciano fin dai Mondi celesti, terrestri, et infernali del  Doni (1562), dalla Favola delle api di Bernard de Mandeville (1714), o i Viaggi di Gulliver, l’Histoire des Galligènes di Tiphaigne de la Roche (1765), o il reame di Butua nell’Aline e Valcour di de Sade. Per non dire di Erewhon di Samuel Butler, per chi ha saputo leggerlo prima di altri. La distopia moderna, però, nasce solo con Noi, nel sovrapporsi di tecnicismo, totalitarismo, igienismo, depersonalizzazione. E il solco sarà segnato, fino a Mondo nuovo di Huxley, che pure negherà sempre di esserne stato a conoscenza, e fino a 1984 di Orwell, che invece recensì il romanzo di Zamjatin due anni prima di comporre il suo capolavoro, e ancora fino alla geniale tesi di laurea alla School of Cinematic Arts di George Lucas, nel 1967, poi riprodotto nel meraviglioso THX 1138


E lettere e numeri sono i nomi nello Stato Unico di Noi. D-503 (D per gli amici, che ovviamente abita nel blocco D, appartamento 503) appartiene all’élite dello stato; ingegnere, costruttore di quella nave spaziale Integrale che porterà la Felicità della Tavola delle Leggi sugli altri pianeti. E D-503 stende le sue note, intitolate Noi, orgogliosamente e convintamente felici, rivolte a quegli abitanti di pianeti lontani ma ormai prossimi, rimasti legati a modi di vivere irrazionali e arcaici, antenati a cui spiegare la bellezza morale della Felicità, tanto da trovarsi di fronte all’ardua sfida di scrivere non per lettori del futuro, ma del passato. 


Ma D-503, matematico, è tormentato fin dall’infanzia da √-1, fonte dei numeri immaginari e dell’inquietudine. E oltre il Muro Verde, asettico confine della perfezione dello stato, ignoti ai Numeri, vivono uomini rifugiatisi nel disordine del primitivismo naturale. E D-503 ha le mani odiosamente villose, un residuo di atavismo nella nuova asettica e glabra società. O forse frutto di relazioni criminali tra donne di qua dal Muro con uomini dell’oscuro di là. E proprio quelle mani pelose attraggono I-330, donna dai denti aguzzi e luminosi, al cui passaggio che fa tremar di claritate l’are D-503 precipita nel non-euclideo. 


E le note quotidiane di D-503 sono allora in realtà il diario dello sconvolgimento provocato da questa donna, dall’entusiasmo per lo stato e la propria missione, alla crisi, la passione, la scoperta rabbiosa e rapinosa delle pretese dell’io e del desiderio. Al riconoscimento della contrapposizione termodinamica tra energia, ribelle ed eretica e salvifica, ed entropia, che ossifica e sopisce. All’accettazione dell’infinito matematico. Fino all’adesione alla rivolta contro il Benefattore, di cui proprio I-330 è la guida. 


Ma se 1984 è una storia d’amore tradita dall’orrore dell’umano, a qualcosa si è ispirato. Perché la fantasia e la libertà sono solo un misero nodo centrale nella regione del Pons Varolii, snidabili in qualche voluta del cervello. E ciò che D-503 potrà annotare nell’ultima pagina del suo diario è come fosse bello che quella donna avesse i denti aguzzi e molto bianchi. Poi sarà entropia.

mercoledì 3 novembre 2010

Quel che Dante non vide

Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka [1944], Milano, Adelhpi, 2010, euro 6

Ci sono alcune esistenze eccezionali, tragicamente eccezionali. Berdyčiv sorge nel mezzo del pianoro ucraino; poco più di ottantamila abitanti; forse non il luogo migliore per nascere, e probabilmente nemmeno per sposarsi, come invece fece Balzac. Soprattutto, però, Berdyčiv fino alla Shoah era costituita all’ottanta per cento da ebrei e vantava la seconda più grande comunità dell’impero zarista; uno Shtetl spazzato via dall’Olocausto. E da Berdyčiv veniva Vasilij Grossman, reduce di tutti i campi, fedi, storie, tragedie. Romanziere sovietico (Per una giusta causa) e poi antisovietico con un destino di censure, sequestri e fortunose pubblicazioni (Vita e destino e Tutto scorre), Grossman visse la dolorosa esperienza del corrispondente di guerra durante il secondo conflitto mondiale; la sua diretta esperienza del fronte, con la risalita, fin da Stalingrado, attraverso le devastazioni del genocidio, lo portò, con Il’ja Erenburg (colui che poi conierà il termine “disgelo”), alla stesura del Libro nero dei crimini del nazismo nei territori sovietici. E proprio alla sua testimonianza diretta di giornalista entrato per primo nel campo di Treblinka si deve questo reportage pubblicato nel novembre 1944 su rivista. Il reportage, che servì da documento al processo di Norimberga, è costituito da due parti: la prima segue il percorso delle tradotte fino al campo, rivivendo attraverso gli occhi dei condannati il raggelante disvelamento della verità, l’atterrita lettura degli indizi sul proprio destino, l’incertezza tra speranze e timori, la privazione di memorie, capelli, nomi, dignità, abiti, fino all’orrore delle camere a gas; la seconda è dedicata agli inceneritori, al tentativo di cancellare la realtà del campo di fronte all’avanzata sovietica, alla rivolta finale dell’agosto 1943. Non so quanto il reportage sia davvero attendibile, a così poca distanza dagli eventi, e che cosa sia stato confermato dalla ricerca storica, per quanto già le note a piè di pagina dell’edizione Adelphi, in cui si correggono i nomi dei vari nazisti operanti al campo, siano rassicuranti. Ma in fondo non è ciò che è più importante. Più è il senso di orrore, di indignazione, di appello alla dignità umana, il lamento su vite dissipate nel niente mentre “la luna, incallita prostituta, passeggiava su e giù lungo le notti / e le stelle ammiccavano schifose, facevano occhiolino come i topi” (I. Katzenelson, Canto del popolo yiddish messo a morte).

lunedì 1 novembre 2010

La verità, vi prego, sull'amore dei litterati

Se ordinariamente ogni simile appetisce il suo simile, io mi maraviglio, come voi altre belle et giudiciose donne possiate comportare di vedere, non che di far degni della gratia vostra, gli huomini litterati, i quali per lo più sono brutti, et sparuti, con certi visi pallidi e affumicati, che farebbono paura a’ bambini: maninconichi, severi, et pensosi: di poche parole, bizarri, fantastichi, et noiosi, che è una morte a vederglisi intorno.


Ludovico Domenichi, Dialogo amoroso, in Dialoghi di M. Lodovico Domenichi, cioè D’Amore, Della vera Nobiltà, De Remedi d’amore, Delle imprese, Dell’amor fraterno, Della Corte, Della Fortuna, Et della stampa, al molto magnifico et nobilissimo signore, M. Vincentio Arnolfini gentilhuomo lucchese, in Vinegia, appresso Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1562

sabato 23 ottobre 2010

Il fumettista torna sempre sul luogo del delitto

Joe Sacco, Neven. Una storia da Sarajevo [2003], Milano, Mondadori, 2007


Francesco Patrizi, nel 1560, nel Valerio, overo dell’historia della vita altrui riconosceva piena dignità di biografabile solo a uomini politici e militari, contestando quelle forme alternative che sempre più spazio prendevano proprio in quel torno di anni, come le vite di artisti e letterati. Ben altre biografie, manco si immaginava che esistessero. Quelle vite di tutti e di nessuno, uomini comuni persi nel flusso della storia. 


Si avrà da aspettare per arrivare alla Histoire véritable de Jacques Bonhomme, d’après des documents authentiques del grande storico francese Augustin Thierry, tragico, e assai poco véritable, capolavoro che, sulla base di inoppugnabili documenti, ripercorre la biografia del bimillenario contadino Jacques Bonhomme, testimone della storia di Francia, dalla conquista cesarea della Gallia alla contemporaneità, pretesto per seguire la storia sociale delle masse popolari. 


Così Neven è uno squarcio biografico che permette di seguire una delle pagine meno note e più cupe della tragedia dell’assedio di Sarajevo; Joe Sacco torna nel 2001 nella capitale bosniaca (alla guerra aveva già dedicato nel 2000 il duro Goražde: area protetta) alla ricerca di Neven, l’uomo dalle conoscenze giuste e dalle insospettate risorse che ha fatto da guida a lui e a infiniti altri giornalisti sulle linee del fronte e delle retrovie (il titolo originale è infatti The Fixer). 


Ma chi è Neven, chi è questo figlio di madre bosgnacca e padre serbo, cresciuto come un serbo, che ha scelto di restare a Sarajevo e combattere nelle milizie bosniache perché è sì un nazionalista serbo, ma lo è perché ama il suo popolo, senza odiare nessuno? Lo sguardo enigmatico e inquietante di Neven fissa il lettore già dalla copertina, in un primissimo piano solcato dall’ombra, precipitando il lettore nell’ambiguità di un uomo denunciato dal suo governo come “un elemento criminale e una minaccia alla sicurezza”. Eroe, criminale, fanfarone, furbastro, mitomane, maneggione, sfruttatore, combattente, o solo grumo di angosce, ricordi e dolore. 


In un continuo gioco di analessi scandite da cornici nere si riannodano i ricordi dal 1991, ripercorrendo i primi giorni disperati dell’assedio quando la resistenza è affidata a nomi rimasti torvi e leggendari a Sarajevo come Ćelo, Caco e Juka. Tutti ben meno che trentenni. Tutti criminali e sbandati, paranoici, violenti borderline, che seppero fermare i Cetnici sul Trebevic, ad Alipašino Polje, a Pofalici, Dobrinja e altri nomi sventrati nel sangue. E a pagare per la sopravvivenza furono i serbi rimasti in città, espulsi, spariti, infoibati, e tutti coloro che furono vittime di razzie, violenze, estorsioni, fino a che il governo ufficiale nell’autunno del 1993 non ebbe la forza di eliminare, spesso fisicamente, i vari signori della guerra. Neven era con Ismet “Ćelo” Bajramović, fino al giorno in cui essere serbo fu inaccettabile anche per lui. 


Spariti i signori della guerra, i giornalisti, gli amici, di Neven resta un’ombra che vaga per la città e una storia che Sacco cerca faticosamente di ricostruire; il trafficone-eroe è solo il reduce di un’esistenza straordinaria e incompiuta. “La verità è che la guerra ha mollato Neven”: la guerra è finita, e di Neven resta la pila dei biglietti da visita dei tempi eroici, di quando faceva da guida ai giornalisti di tutto il mondo a centocinquanta marchi al giorno. L’uomo è solo un disperso nelle nebbie che il fumettista cerca invano di dissipare; e la stessa voce narrante di Joe, continuamente emergente, è il segno dell’impossibilità di ricondurre il tragico caos della guerra e della vita di Neven a un’unità. “Ti immagini che razza di film potrebbero fare su un bastardo fuori di testa come me?!!”

mercoledì 20 ottobre 2010

Ornitologia degli addii

I remember you well in the Chelsea Hotel,
you were talking so brave and so sweet,
giving me head on the unmade bed,
while the limousines wait in the street.
Those were the reasons and that was New York,
we were running for the money and the flesh.
And that was called love for the workers in song
probably still is for those of them left.

Ah but you got away, didn't you babe,
you just turned your back on the crowd,
you got away, I never once heard you say,
I need you, I don't need you,
I need you, I don't need you
and all of that jiving around.

I remember you well in the Chelsea Hotel
you were famous, your heart was a legend.
You told me again you preferred handsome men
but for me you would make an exception.
And clenching your fist for the ones like us
who are oppressed by the figures of beauty,
you fixed yourself, you said, "Well never mind,
we are ugly but we have the music."

And then you got away, didn't you babe...

I don't mean to suggest that I loved you the best,
I can't keep track of each fallen robin.
I remember you well in the Chelsea Hotel,
that's all, I don't even think of you that often.



Per le cose che finiscono, per quel che ne resta, per le persone che vanno.
In vendita il Chelsea Hotel.